Una farmacia del ‘700 (I parte)

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Stampa dell'insegna dell'Aquila Negra. Campo San Salvador

Una farmacia del ‘700 (I parte)

L’ambiente

In una miscellanea di lettere e di memorie del Settecento ho scovato la cronaca manoscritta di una farmacia veneziana, cronaca così dettagliata e vivace che potrebbe offrire facile argomento ad una commedia: ciò che apparve, come vedremo, pure all’autore che la stendeva. Mi atterrò alle notizie più importanti, ché la cronaca degenera spesso nel pettegolezzo e nella minuta narrazione delle diatribe dell’autore con uno zio alquanto stravagante. Si tratta del valdagnese Giovanni Rigoni, che aveva acquistato pratica nell’arte del farmacista nella bottega paterna, ma mal soffriva l’angusto ambiente di una piccola farmacia, e specialmente di un borgo di provincia qual era Valdagno. Il giorno in cui poté trovare impiego presso uno zio, farmacista a Venezia, fu certamente il più fausto della sua vita. finalmente gli si schiudeva dinanzi la grande “metropoli“, che era stata sempre la sua più grande aspirazione.

Mentre si avviava da Valdagno a Venezia, nel 1759, egli non si sarebbe mai immaginato di andare incontro a tante delusioni, a cominciare dall’accoglienza fattagli dallo zio Francesco, che egli sapeva un po’ rude, ma che sperava nutrisse in fondo qualche affetto per il nipote, e che invece era un perfetto “rustego” egoista. Francesco Rigoni aveva servito da giovane in una farmacia alla Giudecca, poi al “Vaso d’oro” in campo Santa Maria Formosa, poi alla “Testa d’oro” al ponte di Rialto, e finalmente alla “Madonna” in campo San Bartolomeo. Quando un certo Calvi, bergamasco, mercante di chiodi e ferramenta al ponte di Rialto, acquistò la spezieria all’insegna dell'”Aquila nera” in campo san Salvador, chiamò a direttore della bottega il Rigoni, che poi diveniva socio del Calvi. Le guerre del 1734 avevano procurato non piccoli guadagni alla farmacia, che aveva fornito all’esercito di terra e di mare droghe e medicine; l’azienda divenne sempre più prospera. Francesco Rigoni era allora serio e attivo, ma giovane e in condizioni agiate; e come poteva allora un giovane veneziano non amare gli spassi e non ricercare il sorriso di una donna? Ed ecco infatti il rigoni trovarsi un “comare“, e mantenerla lussuosamente pagando al marito l’affitto di una bottega da “barettin” all’insegna del “Sole“; ma non durò a lungo il legame, ché un po’ alla volta, oltre alla “comare“, il Rigoni dovette pensare ai figlioli di essa, due capi scarichi, che avevamo poca voglia di far bene. Ed accolse invece in casa una nipote, sorella del nostro Giovanni, Marianna, che promise sposa a Giovanni Antonio Marin, il quale si spacciava per fiorentino e letterato ed era uno dei più assidui frequentatori della spezieria; né la distanza di età, il Marin contava 44 anni la Rigoni 18, parve un ostacolo al matrimonio, che poco dopo seguì. Ma il preteso letterato non si peritò dall’aprire, dopo sposato, un negozio di “specchi, conterie, droghe, e altri generi” in società con certo Miletich, raguseo, che commerciava in Oriente. Gli affari del Marin andarono presto assai male, tanto che gli convenne chiudere un occhio sulle faccende di casa; pare che “le corna non gli facessero più tanta paura“.

Il male si è che dal fallimento del Marin ebbe qualche danno il credulo zio, che aveva firmato alcune carte per il marito della nipote, per la quale aveva nutrito sempre una certa tenerezza, che offriva argomento a maligne chiacchiere agli sfaccendati frequentatori dei caffè della Merceria.

In questo punto giunse a Venezia il nipote Giovanni Rigoni. A primo aspetto la grande città lo sgomentava; egli si trova impacciato non conoscendo alcuno, tranne lo zio, la cui accoglienza, come dissi, non fu troppo incoraggiante. Gli furono tanto tagliati i capelli, gli si mise la parrucca tonda “alla Dolfina“, gli si fecero indossare una vesta nera e un grembiule (“la falda“) a complemento della livrea di garzone, e lo si cacciò subito in bottega a fabbricare triaca e ad riempirne vasetti. Poco lo zio ammaestrò nella professione del farmacista, ché quasi subito dopo l’arrivo del nipote egli se ne andò in campagna e lasciò il giovane sotto la guida di G.B. Migliorati, un friulano, che godeva la fiducia del padrone e che dirigeva la farmacia in assenza di lui, e di una greca, un po’ donna di governo e un po’ serva, e più ancora padrona di casa, Zanetta Coraffana, dalla quale il giovane aveva poco da imparare, specialmente quanto a moralità, poiché essa giocava doppio consentendo contemporaneamente alla corte del vecchio Rigoni e del Migliorati.

Per l’alloggio il giovane Rigoni dovette acconciarsi a dormire in una stanza meschina, una specie di soffitta, col facchino della farmacia, su una cuccetta angusta e dura, invidiando la sorte del Migliorati che dormiva comodamente in un letto padronale. Il salario concessogli consisteva in poche lire al mese, e soltanto in seguito gli fu elevato a ducati 2 e mezzo, restando a suo completo carico vestiario, barba e parrucche. Così egli doveva accontentarsi di un abito di “ruè” o di “camelotto” d’estate, e di “pannato di sottoportico” l’inverno, mentre il Migliorati sfoggiava, come un ricco damerino, abiti di seta per l’uso quotidiano, tabarri di scarlatto, un magnifico vestito da maschera, biancheria finissima, panni di Francia da 28 a 30 lire il braccio, posateria d’argento sua speciale a tavola; tutte cose che nemmeno il salario mensile di dieci ducati poteva giustificare, e soltanto un cieco come il vecchio Rigoni poteva non accorgersi che tutto ciò derivava da qualche esplorazione fatta di nascosto nella cassa della farmacia. Ma ciò non era tutto: mentre il giovane Rigoni, recandosi a Venezia, sperava di poter godere spesso feste e teatri, egli si avvide subito come questi spassi gli fossero preclusi per il misero peculio a sua disposizione e per l’obbligo fattogli di restare in casa la sera a custodia dell’abitazione e del negozio.

Il Migliorati invece, se di carnevale, usciva vestito in maschera, con l’aspetto intraprendente, con lo spadino e il mantello rosso: e fuor della “velada” gli uscivano le più belle “cascate” di pizzo e al collo era appuntato un vistoso “rosettone” di brillanti. E si recava al caffè o alle conversazioni o al teatro, dove raggiungeva la signora Pagello Calura, cui faceva da cavalier servente, e con la quale si dava ogni anno lo spasso di un prolungato soggiorno in campagna. Non era forse per costei che il Migliorati aveva comperato dal sarto Bartoluzzi detto Scaton una pelliccia di “camelotto” verde? E non era noto a tutti certo suo legame passato con una ballerina detta “La Mora“, che gli aveva procurato qualche noia?

In bottega il galante farmacista aveva soppressa la parrucca tonda e adottata quella a borsa, e portava il grembiule arrotolato intorno al ventre, e lo faceva scomparire in una tasca o dietro al basso se entrava qualche elegante cliente.

Giovanni Rigoni, se volle impratichirsi nell’esercizio della sua arte, dovette accontentarsi di osservare quanto faceva lo zio e di copiare di notte tempo il ricettario del Boerhave, ché dal Migliorati invano avrebbe atteso insegnamenti. D’altra parte il friulano attendeva più volentieri ad altri negozi. Un certo affare di triaca da spedire in Francia gli aveva procurato una catena da orologio d’oro, al vecchio Rigoni a ripetizione di poco prezzo e al nipote una volgarissima scatola di carta per tabacco. Insomma anche in questa faccenda il Migliorati si era serbata la parte del leone, procurandosi indirettamente quanto aveva adocchiato nella mostra del signor Carlo Latour, mercante di “bizuterie” in Merceria, cui giungevano le più eleganti bagatelle che la moda divulgasse a Parigi.

Qualche anno dopo (nel 1766) il Migliorati prenderà a volo un altro affare che gli procurerà qualche altro guadagno. Il signor Marzio Giandolini di Latisana, fattore di casa Mocenigo nel Friuli, volendo recare omaggio al Doge Alvise IV Mocenigo in occasione delle magnifiche nozze Mocenigo-Grimani, pensò di mettere assieme una raccolta di versi del proprio figlio Francesco, poeta di qualche facilità ed eleganza; di scegliere la stamperia, i rami, la carta, la legatura diede commissione al Migliorati, il quale non risparmiò spese di raso, ricami e fiocchi d’oro, legatura sontuosa, e in tale faccenda poté quindi lucrare per parte sua una cinquantina di ducati. 

Il giovane Rigoni si sentiva sempre più a disagio di fronte ai tre padroni che in realtà dirigevano l’azienda; il Migliorati che faceva ogni suo comodo, la greca Zanetta, che, sicura del favore del padrone e dell’amante, spadroneggiava a suo agio, pronta a tradire l’uno e l’altro con gli amici numerosi che aveva fuori bottega, e il padrone vero che per il quieto vivere lasciava dire e fare, e si racchiudeva nel suo egoismo, senza dimostrare alcun affetto verso il nipote, che dava sfogo alle sue ire nelle lunghe pagine del suo diario, ma era impotente a reagire o a far aprire gli occhi allo zio. E la greca non era la meno inferocita dei tre contro il giovane intruso. 

Ma un bel giorno il Rigoni la vide insolitamente benevola ed affabile con lui, “Gatta ci cova“, pensò. E infatti si rilevò presto la trama di un nuova congiura a suo danno. La greca si recava di frequente in casa di una gentildonna Contarini da Santa Trinità, “barnabotta“; la greca era stata qualche anno al servizio di quella dama delle cui origini molto si mormorava. Le visite erano ricambiate in farmacia dalla Contarini, che accompagnava seco una sua figlia, “giovine e non brutta, saggia di ottimo fondo“; madre e figlia usavano qualche cortesia al povero Rigoni. Zanetta, quasi per gioco, azzardò un giorno qualche frase su un eventuale matrimonio; il Rigoni capì che si cercava di appioppargli la ragazza, seppe come la madre non fosse legittimamente legata al Contarini che passava per suo marito, e si affrettò quindi a deludere i progetti delle due e della serva che prestava alle donne la sua opera di mezzana.

Ma non fu questo il solo tentativo del genere: certa signora Marta B…., che abitava nella vicina merceria San Salvador, conosceva pure Zanetta e veniva nella casa del farmacista recando seco tre figliole piuttosto belle, la serva si prestava volentieri a lasciar soli il giovane e Francesca, la magggior parte di queste donzelle, e i due si infiammarono a tal punto che poco mancò che il Rigonicommettesse la somma di tutte le stoltezze, che mai può far l’uomo” cioè di sposarla. E si ritrasse in tempo.

 Lo zio non s’accorgeva di tutto ciò: gli bastava che il nipote fosse sempre nella bottega a servire i clienti, pronto a rimproverarlo se constatava qualche ammanco (e se n’accorgeva di rado) nella “cassella” del banco, ammanchi che il nipote sapeva dovuti alle avide mani del Migliorati e a quelle ancor più lunghe della serva greca. E’ vero che il Rigoni confessa di avere pure “pescato” nella famosa “cassella“, ma a ciò lo costringeva la irragionevolezza dello zio che gli passava un salario irrisorio, appena degno di un facchino. Non restava al Rigoni se non il conforto offertogli dall’esempio di altri suoi coetanei, pure maltrattati dai parenti: un nipote del ricchissimo mercante Pietro Manzoni, per esempio, obbligato dallo zio a sposare la brutta ma ricca figlia di Giovanni Maggioni, ricco “margariter“, e nonostante ciò posposto a due giovani di negozio, Giovanni Rivi e Pietro Astori, detto “damegiana” per la sua figura piccola e grossa. Annotava il Rigoni in margine alla sua cronaca: “Solatium miseria est socios halbere poenatum“.

E che il vecchio Rigoni fosse un matto caparbio bastava ad indicarlo la mania di farsi radere la barba anche d’inverno, un’ora avanti giorno, obbligando a tale levataccia Gerolamo Artusi, barbiere a San Paternianvalente in barbe“, ma uomo assai povero e carico di famiglia. Una mania anche questa: ché, fatta la barba, l’uno era obbligato a bruciare il guadagno, 20 soldi, in tanta legna per far giungere l’ora di aprire bottega, e l’altro sedeva al bancone a fumar tabacco e ad attendere i primi passanti mattinieri. 

Giovanni Rigoni sospirava: egli si era rinchiuso volontariamente in una bella gabbia di matti, e tutto il suo orrore per la provincia e il suo amore per Venezia potevano appena dargli le forze per resistere all’avvilimento, che talora lo prendeva. Che cosa non avrebbe sopportato per rimanere nella città ammaliatrice? (1)  …. segue II parte

(1) Bruno Brunelli nel Il Marzocco dal 12 luglio al 27 settembre 1925 https://www.vieusseux.it/coppermine/index.php?cat=25 

 

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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