La fuga del Casanova dai Piombi, da un racconto di Fabio Mutinelli (1841)

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Palazzo Ducali. I Piombi

La fuga del Casanova dai Piombi, da un racconto di Fabio Mutinelli (1841)

Jacopo Casanova, uomo di dottrina bastante, di grandi imprese, di curiosi successi, ma rotto al vizio, riottoso, audace ed ingrato, uomo in somma che per essere stato un furbo in chermisì e nulla più, non avrebbe titolo certamente a ricordanza, nè a quella fama sue avventure in tutta Europa, quella specialmente della sua fuga dalla prigione dei Piombi. Ma perchè adesso sarebbe forse omissione gravissima il tacere assolutamente del detto furbo, così ristrignendoci all’avvenimento solo della fuga, diremo come Casanova trascorsa tutta Italia, visitata l’Asia minore e la Grecia, buona parte di Germania e di Francia, e dopo averne fatto ovunque di quelle coll’ulivo, Venezia rivedeva patria sua, ove era arrestato dal capo bargello il 26 luglio del 1755.

Fosse egli considerato quale turbatore della quiete pubblica per aver fischiato come partigiano di Goldoni le commedie dell’antagonista suo Pietro Chiari, professasse eterodossa credenza, o possedesse libri tali da reputarsi perniciosissimi, condotto era nei Piombi e serrato nella segreta rivolta ad occidente, senza altro saperne.

Cattivo da parecchi mesi, avveniva che aggirandosi un di per il corridoio mentre gli si spazzava la segreta, adocchiasse tra molte vecchie masserizie accatastate in un canto del palco un grosso e lungo chiavistello. Lieto di quella scoperta più che veduto avesse rilucer gemma nello sterquilinio, giacchè ben avvedevasi che potea divenire in sua mano il chiavistello, di soppiatto impadronivasene, e sotto la vesta nella segreta recandolo, lo mutava, dopo molto e molto averlo arrotato, in un perfetto spuntone, col quale cautamente, e sotto il letto, incominciava a logorar i panconi del solaio, per indi calarsi col mezzo delle lenzuole nella sottoposta camera del segretario degli inquisitori di Stato, e per di là fuggirsene.

Correva allora inverno fitto, e perciò in quei luoghi di perdizione mancava quasi affatto la luce per bene progredire nell’opera, e per condurla ad effetto. Casanova se ne accorgeva, e destinando all’ufficio di lucerna un tegame, facendo lucignoli colla bambagia del coltrone, traendo l’esca dal proprio abito, che per usarsi allora di seta, andavano tutti sotto le ascelle d’esca imbottiti, affinchè il sudore non avesse danneggiato la seta, rivolgendo a focile la fibbia delle brache, e suscitando finalmente con essa la scintilla da una pietra focaia, chiesta sotto color di farmaco al bonario carceriere, provvedeva col risparmio dell’olio della insalata al difetto di quello, e caldamente attendeva alla impresa.

Però tanti ingegni, tante fatiche andavano a vuoto ad un tratto. Imperocchè, volendo gli Inquisitori di Stato addolcire la sorte del prigioniero, disponendo ch’egli fosse passato in una delle segrete ad oriente, accadeva che il carceriere giungendo sopra il Casanova, in ora insolita e all’improvviso, scoprisse l’artificiosa lucerna, e l’opera tutta per la macchinata fuga. A quella veduta infuriava diabolicamente il custode; ed or in cagnesco, or piagnoloso aspramente garriva Casanova, rimbrottandogli di averlo colla numerosa sua figliuolanza mandato per sempre in sterminio: ma Casanova, fatta faccia tosta, gli rispondeva, considerar dovesse piuttosto sé stesso come il solo colpevole, mentre involontariamente gli aveva porto i mezzi tutti atti ad agevolargli la uscita, minacciandolo che se ardito avesse fiatare, egli medesimo lo avrebbe accusato siccome suo complice al segretario degli Inquisitori.

A quelle proteste del destro si perdeva il cuore al gaglioffo; laonde promettendo silenzio inviolabile, ed altrettanto implorando da Casanova, chetamente eseguiva gli ordini del magistrato. Passava dunque il prigioniero nella nuova segreta, e vi passava col fedele spuntone: ma, fosse che il carceriere avesse propalato alcun che della scoperta macchinazione, o fosse spontanea ordinanza degli Inquisitori, da quel giorno in poi erano quotidianamente esaminati e battuti con una barra i canti tutti della segreta per accertarsi della intangibilità di essi, costituendosi inoltre artificiosamente con Casanova prigioniero un Soradacci, grande spione di quei tempi, affinché d’occhio lo tenesse: inutile pertanto si rendeva il possesso dello spuntone.

Non si scoraggiava però il mariolo, e quindi intento sempre alla sospirata fuga, gli sembrava di esser già bello e libero nel dì in cui scartabellando un libro avuto dal guardiano rinveniva in esso una scritta di altro sciagurato, che da più e più anni colà vedeva il sole a scacchi, nella quale gli manifestava la brama di darsi pur esso alla fuga.

Era colui Padre Marin Balbi uomo quanto di costumi corrotti e di perduta fama, altrettanto d’animo forte e risoluto, perciò per Casanova mirabilmente adatto. Detto fatto, inviava quest’ultimo all’altro temerario, acconciato entro la coperta di una bibbia in foglio, il famoso spuntone, e glielo mandava unitamente all’istruzione di operar con quello in modo che, pertugiato il cielo della propria segreta, dovesse recarsi sopra quello della sua a fare altrettanto per indi insieme involarsi.

E già dava mano il Padre Balbi accortamente al lavoro, e si arrabattava, mentre Casanova intendeva a non meno difficile impresa, a disporre cioè al grande avvenimento lo spione Soradacci, il quale era insigne graffiasanti, oltreché vile e beone. Andava pertanto Casanova mescendogli di continuo e con profusione, e in pari tempo gli bisbigliava, come il pietoso cielo non lo voleva più carcerato; sapere che un angelo calerebbe a salvarlo; sapere, che Soradacci in capo a tre giorni sarebbe uscito di vita se osato avesse palesar quell’arcano: giurasse quindi, e la spia (certamente più per essere avvinazzata, che per credere alle parole del furbo) giurava, di tenere occulta per sempre la miracolosa avventura.

Stabilite in questo modo le cose, giungeva finalmente il giorno della discesa del Padre Balbi, onde Casanova, che ne era stato avvertito, si affrettava di versare nel gorgozzule di Soradacci quanto vino avea sino all’ultima stilla, di maniera che non era colui certamente in stato di por mente al picchiare e al ripicchiare dello spuntone, né capace di scernere se il Padre Balbi, già felicemente calato nella segreta, uom fosse o veramente angelo.

Nientedimeno a cenno imperioso di Casanova si prestava Soradacci a levar con le forbici si a lui che al compagno suo la barba, che per la prigionia lunga avevano essi fuor d’ordinario velloso il mento, per quindi sola, attornita e scornacchiata rimanersi nella carcere la spia, mentre gli audaci, nel silenzio della notte, andando branciconi per il tetto del palazzo, correndo mille rischi, e operando collo spuntone meraviglie di rotture di chiusi e d’imposte, uscivano già sul far dell’alba di cattività, e indi a poco, non richiedendosi allor passaporti, anche dallo Stato. (1)

(1) FABIO MUTINELLI. Annali Urbani di Venezia. (Venezia 1841)

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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