Le Prigioni

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Palazzo delle Prigioni - Castello

Le Prigioni

Sappiamo che fin dalla età più remota non si punivano gli errori come i delitti, che vi erano prigioni di varia natura per castigarli. Quindi per le colpe leggere esistevano carceri per ogni sestiere della città, e ne sussistevano a Rialto, ove incominciarono, da che furono installati i magistrati a render ragione. Altro carcere ancora stava per i debitori a San Marco in Merceria, o Frezzeria. Le carceri per i cattivi di guerra esistevano in Terranova, distinte col nome di Gabioni, che valsero poscia di granai del Comune; nel qual luogo adesso verdeggiano i giardini reali. Da ultimo, le prigioni pei rei maggiori e di Stato stavano appunto nel Palazzo Ducale. Fra queste si contavano quelle appellate poi dei Pozzi, di cui ragioniamo.

Ma lungi dal credere che in esse si facessero marcire i rei privi di ogni umano soccorso, che erano in quella vece dalla pietà della Repubblica tenuti in modo assai diverso da quello usato dagli altri principi e signori d’Italia. A ciò che da epoca immemorabile, dai procuratori di San Marco e da procuratori e governatrice dell’ospitale della Pietà, e quindi dalla congregazione o fraterna instituita nel 1593 per la liberazione dei prigionieri, venivano i sostenuti soccorsi nelle loro bisogne, e pagali i loro debiti, tanto per oggetti civili come per i criminali, erano liberati dal carcere dopo compiuta la condanna.

Dagli archivi, che furono delle Procuratie di San Marco e della fraterna accennata, ora deposti nella Casa Patria di Ricovero, per gentile adesione di quell’egregio signor amministratore onorario Vittorio Bovo, ci fu dato esaminare, primi d’ogni altro, i preziosi documenti che in essi archivi conservatisi, e ne ricavammo le seguenti interessanti notizie, valevoli a sparger lume sull’argomento che trattiamo; e più valevoli ancora per chi imprendesse a studiare intorno alla legislazione veneta penale. E prima ci abbattemmo in vari testamenti di pii benefattori, che legarono a benefizio dei prigionieri somme generose per quei tempi, a fine o di liberarli, o di sovvenirli nelle loro miserie, o, da ultimo, per somministrar loro olio ad illuminare le carceri ove giacevano. Poi trovammo che il Maggior Consiglio con varie parli, rinnovate di tempo in tempo, fra cui li 19 marzo 1531, a far sì che sempre più i carcerali venissero assistiti dalla carità cittadina, ordinò ai pubblici Notai, sotto debito di sacramento e sotto pena della privazione dell’officio loro, di ricordare ai testatori i poveri prigionieri. Disposizione cotesta, che quantunque riguardasse i soli carcerati per debiti civili, pure giova a rilevare il pietoso adoperarsi del Governo per il bene di quegli infelici: della quale sollecitudine non si ha pure esempio presso gli altri Reggimenti. Altra benefica disposizione trovammo emanata dal Maggior Consiglio, nel 1441 e più stabilmente il 22 luglio 1475, con cui si ordinava la elezione di un avvocato patrizio, pagato dal pubblico, affinché difendesse le ragioni dei poveri sostenuti. E poiché questo solo avvocato non bastava alla trattazione delle molte cause e processi, con l’altro decreto del Maggior Consiglio 17 ottobre 1535, se ne elesse un secondo. Il fin qui riferito vale a proporre la mitezza e la clemenza della Repubblica verso dei prigionieri; ma quello che più interessa e torna a proposito allo scopo nostro, è la parte presa nel Consiglio dei X li 7 aprile 1564; nella quale, considerandosi l’accresciuto numero dei sostenuti nelle carceri di San Marco, vale a dire, nelle esistenti allora nel Palazzo Ducale, e veduto che per la moltitudine giacente in ogni prigione s’infettava l’aere, sicché se ne ingenerava il contagio e quindi la morte di parecchi di quegli infelici, si ordinava lo stabilimento di una infermeria, come l’uso dei monasteri, e si commetteva agli Avvogadori di Comune di far nettare, profumare ed asperger d’aceto generoso tutte le prigioni in generale, comprese quelle del Consiglio dei X, e le forti (vale a dire le appellate posteriormente dei Pozzi), volendo anche che tale opera e cura si rinnovasse ogni anno prima della ricorrenza delle feste pasquali, cioè al principiare della calda stagione.

A provar meglio la clemenza del Senato verso i carcerati, ed in qual modo si tenevano essi nelle prigioni forti, che è quanto a dire in quelle dei Pozzi, giova anche ricordare come da tempo immemorabile era lor concesso qualche respiro, lasciandoli uscire nei corridoi a pochi per volta nel tempo che i custodi facevano la visita quotidiana, secondo appare dalla parte del Consiglio dei X, registrata nel libro appellato Magnus; giova rammentare, come ordinariamente non fossero gravati di catene, secondo che si usa tuttavia gravarli in tanta luce di civiltà, di progresso e di filantropia: giova dire, che pensato si era assai per tempo a separare i sostenuti per debiti dai ladri e dagli omicidi: come si ebbe cura di sminuire il loro numero della stessa carcere durante l’estiva stagione: come si permetteva ad essi l’uso del vino, giusta quanto risulta da vari ordini, e massime da quello 10 marzo 1516, singolare anche perché sono in esso nominali i Camerotti de la camera del Tormento, vale a dire li Pozzi; e più singolare perché viene ordinato di fare l’acquisto del vino, per conto dei prigionieri, nei luoghi migliori, affinché possano i carcerati essere bene serviti: giova riferire come oltre la licenza di poter acquistarsi il vino per proprio conto, erano i prigionieri miserabili forniti anch’essi di vino, per lo lascito fatto dal N. U. Giambattista Bonzio, col testamento 17 settembre 1507. E poiché era insinuato nel testamento medesimo, che supplicar si dovesse il Senato di esentare dal dazio la quantità di vino destinata ai prigionieri, la pietà del Senato stesso, per sollecitudine dell’avvocato dei prigioni, nobile Carlo Contarmi, ordinava con la parte 7 giugno 1641, che fossero contati dagli Avvogadori di Commun ai procuratori de Citra, quali commissari testamentari, ducali settantacinque di Zecca annui, affinché con questi si pagasse il dazio in parola.

Anche intorno alla somministrazione del pane si curava fosse eseguita senza defraudo, e massime dopo che la congregazione o fraterna, per la liberazione e soccorso dei prigionieri ora detta, vigilava sollecita al loro ben essere. La Terminazione 24 marzo 1621 dei Provveditori alle Rason Vecchie, dimostra appunto la premura di quel magistrato, perché il pane fosse loro fornito di ottima qualità, bene ammannito, e nella quantità comandata; e la parte 23 febbraio 1707, m. v., presa in Pregadi, fa vedere, come per togliere qualunque abuso e defraudo dal lato dei fornitori, si statuisse che dal magistrato delle Biave fosse corrisposto il pane ai prigionieri dai pubblici forni, in qualità e misura eguale a quella che si dava agli operai che lavoravano nella fabbrica del biscotto. Oltre a ciò tutto si ordinò anche nel 1694, che fossero provveduti i poveri prigionieri di grosse schiavine, affinché non patissero freddo la notte. Erano anche visitati una volta al mese, per obbligo, dai Capi del Consiglio dei Dieci e posteriormente, da sei confratelli della pia congregazione mentovata; testimoniandolo la Determinazione presa nel Capitolo tenuto da essa il di 13 novembre 1596; e queste interviste valevano per rilevare i bisogni dei miseri sostenuti, e provvederli di quanto fosse trovato loro giustamente necessario. Dal Notatorio n. 1 della congregazione stessa rilevammo ancora, che girava per la città un commesso con licenza di mons. Vicario patriarcale, per raccogliere elemosine a sollievo dei carcerati chiusi nelle prigioni forti, vale a dire in quelle dei Pozzi, e nelle quali si trovavano allora, cioè nel 1598, due o tre soli poveri prigioni. (1)

I Pozzi. Nel quarto del Palazzo Ducale prospiciente sul Canale chiamato Rio di Palazzo, sono collocate le Sale di Residenza dell’antico Magistrato degli Avvogadori, nelle quali si entra per una porta aperta nella galleria cui mette la Scala dei Giganti. Sotto esse sale, e costrutto un solido edificio quadrangolare, come sarebbe un tronco di torre, il quale è diviso in due piani. Il piano superiore è immediatamente sottoposto alla suddetta residenza degli Avvogadori, l’inferiore è quasi a livello del Cortile del Palazzo. Ognuno di detti due Piani è diviso in nove carceri, che ricevono debole luce dal corridoio od andito che la lascia, il quale è illuminato da piccole finestre aperte a due lati di esso. La grandezza di dette carceri e varia, ma differisce poco dall’una all’altra. Sono tutte a vòlto, ed erano foderate di tavole di larice, che rivestivano le pareti ed il pavimento. Benché ciascun piano abbia nove carceri, pure, nel superiore, sono contrassegnate come se fossero dieci, perché una ha due numeri, cioè il N. 6 sulla porta che le dà ingresso. e il N. 7 sulla finestra che la illumina. Quelle del piano inferiore appaiono ora in numero di sei solamente, perché le altre tre ne furono in questi ultimi tempi segregate, e servono ad usi familiari del custode del Palazzo; ciò basta a provare che non furono orrendi abituri invasi dall’acqua. (2)

Dalla Pianta originale del piano terreno del Palazzo Ducale, risulta che le prigioni dette poi dei Pozzi non si distinguevano con tal nome nel 1580, in cui venne rilevala essa Pianta, ma sì con quello di Prigioni dei Signori Capi. Sono poi divisate con l’appellazione di Forti, e da infiniti altri documenti che ci vennero fra mani, in alcuni de quali si dicono anche Orbe: e sia l’un nome che l’altro provenne certamente dall’esser desse più munite e più cieche dell’altre tutte. Per ciò appunto le vediamo distinte col titolo di Orbe nella parte presa nel Maggior Consiglio il di 30 maggio 1486, colla quale si condannavano a giacere in esse due anni coloro che entravano nei conventi di monache; ed a tre anni gli altri che menavano una monaca fuori del cenobio. Nulla memoria quindi abbiamo che si appellassero Pozzi, queste prigioni, prima che costrutte fossero le nuove carceri oltre il rio di Palazzo. In alcun pubblico atto non s’incontra cotal nome, né in cronache, né in altre scrinare. Forse fra il popolo si conoscevano con tal distinzione prima di quel tempo, ma ciò è incerto. E’ di vero, prima ancora dell’incendio accaduto nell’anno 1577, si conobbe la necessità di levare da sotto il Palazzo Ducale, cioè dal pian terreno, le carceri, sicché se ne aveva eretta una parte nel 1571, e allorquando poi arsero, nell’incendio accennato, le due sale del Maggior Consìglio e dello Scrutinio, agli architetti chiamati a consulta per riparare i danni, si propose, fra gli altri quesiti da sciogliersi, anche quello del come si doveva trasportare le carceri fuori del Palazzo. (1)

I Piombi. Erano camerotti non si angusti e bassi per verità come comunemente vien detto, e sebbene fossero caldi d’estate per i sovrapposti piombi, non molto erano freddi all’inverno. Si ricavarono dal soffitto del palazzo formando qua e là dei camerini, la luce dei quali derivava da un finestrino posto d’ordinario di faccia alla finestra del soffitto stesso. si usavano quelle prigioni per i rei di stato nei tempi della repubblica; ma nel furore popolare della democrazia (1796), strappatene le pareti, non più rimasero che i segni dell’area da esse racchiusa.

Le prigioni nuove. Le prigioni esistevano anticamente sotto il pubblico palazzo nell’angolo verso il ponte della paglia; ma nel 1589 sul disegno di Antonio da Ponte, si diede principio a questa fabbrica tutta coperta di grandi e pesanti massi d’Istria ed avente un carattere di robustezza affatto acconcio alla sua destinazione. Il fianco specialmente di essa immerso nel rivo, col suo regolare ma rude bugnato di cui è investito, col triplice ordine di piccole finestre munite da doppie grosse ferrate inspira un certo attristamento che forma l’elogio del suo architetto. Non cosi può dirsi della fronte principale respiciente il gran canale. Ha essa interiormente un bel portico di sette arcate e nel mezzo del portico l’atrio che mette alle scale ed al cortile; indi il piano superiore (dov’è la sala già addetta ai signori di notte al criminal) con sette grandi finestre, che ornate di cornici e frontespizi e divise da colonne di ordine dorico fiancheggiate dai semipilastri rispondono ai sette archi del portico. Tanta decorazione non si addiceva per verità ad una prigione dove, come dice il Milizia, niente deve offrire la grazia e la maestà, ma tutto la ruvidezza, la forza. Ben è vero che il bugnato posto nelle arcate inferiori e negli intervalli rimasti superiormente dopo le parti decorative, il risentimento dato alla trabeazione, le mensole nel fregio sostituite ai triglifi furono intesi al fine di far pesante e dignitosa la fabbrica; però il complesso di essa rimase di una eleganza mal conveniente alla sua destinazione.

Essendo quasi isolato un tale edificio e con un cortile nel mezzo non manca quindi di ventilazione. Può contenere da circa 400 persone, giacché si esclusero le prigioni insalubri. Comoda e saggia si è la ripartizione dei suoi locali distribuiti secondo la gravità dei delitti, e somma n’è infine la nettezza che tanto contribuisce alla salute dei carcerati. Sotto la Repubblica c’era una fraterna presieduta dal Patriarca onde raccogliere limosine a sollievo degl’incarcerati specialmente per debiti civili, e si diceva la fraterna delle prigioni. La Religione che tutte conforta le piaghe dell’umanità scendeva in tal modo ad alleviare le pene di coloro che l’errore della mente più che la depravazione del cuore segrega dall’umano consorzio.

Comunicano queste carceri col palazzo ducale mediante un ponte coperto che accavalca il rivo, e che è ammirabile per la sua costruzione e per l’elevata altezza dall’ultimo piano delle prigioni medesime. Internamente è diviso in due corridoi con separati ingressi, e fu sempre denominato il ponte dei sospiri perché i rei venendo per esso condotti ai costituti dei giudici dovevano gettar dei sospiri sulla sorte che gli attendeva. Quando vennero erette le prigioni, si tolse dalla stanza degli avvogadori un andito che metteva al ponte dei sospiri, per far comunicare il palazzo Ducale con quelle prigioni. Cosi l’Avvogaria era a portata di aver i prigionieri negli esami ad essa spettanti, siccome avrebbe potuto avere quelli gettati nei pozzi mercè altra prossima scala, e quelli incarcerati sotto i piombi per un altra scala che mena alle stanze del Consiglio dei X, e quindi da di là fino i piombi medesimi. (3)

(1) FRANCESCO ZANOTTO. Il Palazzo Ducale di Venezia, Volume I. Venezia 1853

(2) Venezia Sestiere di San Marco.

(3) ERMOLAO PAOLETTI. Il Fiore di Venezia, Volume II. Tommaso Fontana tipografo edit. Venezia 1839

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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