L’arte dei fabbri a Venezia

0
798
Corte de le Ancore. Sestiere di San Marco

L’arte dei fabbri a Venezia

Racconta il Sagornino, nella sua “Cronaca“, che i fabbri ferrai erano numerosissimi a Venezia, e che nei primordi del mille essi dovevano lavorare una data quantità di ferro per conto del Doge che allora commerciava come fosse un privato.

Nel 1162 i fabbri si segnalarono contro Ulrico, patriarca di Aquileia, il quale colto il momento che i Veneziani erano in guerra contro Padova e Ferrara, aveva aggredito Grado.

Pronta la Serenissima armò la sua flotta, circondò la città, sconfisse il nemico e fece prigioniero il patriarca con dodici dei suoi canonici. Ulrico, se volle la libertà, dovette dichiarasi tributario di Venezia, promettendo ogni anno, nel giovedì grasso, di spedire un pingue toro e dodici porci, umiliante allegoria raffigurante lui stesso e i suoi canonici.

I fabbri, che avevano tanto coadiuvato alla vittoria, ebbero il privilegio di uccidere il toro, e perciò il giovedì grasso, armati di lancie, di scimitarre e di lunghissime spade si recavano al palazzo Ducale, preceduti dal loro gonfalone e “con torce e pifari”, e preso il toro e porci, li conducevano in piazza San Marco dove, alla presenza del Doge e della Signoria li uccidevano.

La confraternita dei Fabbri aveva l’altare nella Chiesa di San Moisè, come ricorda il Sabellico, e nella parrocchia stessa aveva fatto acquisto di alcune case della famiglia Cappello per costruirvi la Scuola, la quale sorgeva nel 1602 nella calle appunto dei Fabbri a San Moisè, dietro la chiesa.

Agostino Sagredo nel suo libro “Sulle Conosrterie delle Arti” racconta che nel piano terreno della Scuola vi era il deposito del carbone ed una stanza di uso comune. A metà della scala un’altra stanza, tappezzata con cuoio dorato (cuoridoro), serviva per le elezioni e le adunanze degli ufficiali; nel piano superiore si apriva la sala grande con l’altare di legno intarsiato e scolpito, il gonfalone di seta della confraternita ed alle pareti pregevoli dipinti di celebri autori. Sopra la sala grande c’era l’archivio ed una stanza dove si conservavano le armi destinate alla funzione del giovedì grasso.

I fabbri, la cui scuola era una delle più ricche della città, non si accontentarono di un solo santo protettore, ma ne vollero quattro: Sant’Egidio, San Linerale, San Carlo e San Giovanni ed a tutti e quattro tributavano onori e festosi banchetti.

C’erano fabbri da grosso e fabbri da fino: i primi costruivano ancore, graffe, catene, adoperando per legge il solo ferro di Svezia che più si avvicinava al ferro chimicamente puro; i secondi costruivano forzieri, serrature, chiavi, cesoie e placche.

In San Marco, in Corte delle Ancore, un fabbro che là teneva officina, tale Piero Foresto, fu multato di dieci ducati d’argento per “nun haver doperado ferro bonum et legele ne ‘l far anchore et altera ferramenta navigiis pertinentia” e tale Augustin Severiin contrà di san Cassan fo bandizato per do anni per haver facto chiave false“.

La Scuola dei fabbri era severissima con i suoi confratelli, ed i due condannati, uno alla multa e l’altro al bando, furono in perpetuo cacciati dalla Scuola. (1)

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 13 e 14 dicembre 1923

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

Lascia una risposta

Please enter your comment!
Please enter your name here

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.