Le patere di Ca’ Da Mosto sul Canal Grande, nel Sestiere di Cannaregio
Sul Canal Grande, poco lontano dal Ponte di Rialto, a destra di chi muove da San Marco, sorge un antico palazzo di stile veneto-bizantino, la cui costruzione rimonta, come crediamo, ai primordi del secolo XIII, quantunque nella facciata si scorga posti in opera materiali di più antichi edifici, e sculture dei bassi tempi, forse provenute dalle rovine di Altino o di Aquilea.
Comunemente è conosciuta questa fabbrica sotto il nome di Palazzo del Leon Bianco a ragione dell’insegna dell’albergo che qui si dischiuse nel secolo XVII, ma, tranne il Zanotto, il quale, la chiamò palazzo antico Zorzi, nessuna delle nostre guide, nessuno dei nostri scrittori di cose patrie seppero indicarci a quale famiglia essa in origine appartenesse.
Ci parve quindi prezzo dell’opera l’indagare in tale argomento la verità, e ci servì di primo filo a conoscerla il far attenzione che il sottoposto traghetto, pur esso attualmente detto del Leon Bianco, e corrispondente all’altro delle Fabbriche Nuove in Rialto, si chiama in tutti gli antichi documenti Traghetto di Ca’ da Mosto, esistendo pure una legge del secolo XV per cui qualsiasi persona in Venezia poteva mettersi a vogare nei varî traghetti con il pagamento di un ducato di benintrada, eccettuato il traghetto di cui parliamo, perchè era a disposizione della patrizia famiglia Da Mosto.
Tuttavia, non contenti di ciò, ci demmo a svolgere varie cronache manoscritte, ed ecco farci avvisati la cronaca Veniera, che, anticamente i Da Mosto portavano l’arma “a quartieri zala et azura con le borchie nere drento a modo de capelle d’agudi, come si vede sopra la sua casa grande dei Santi Appostoli sopra il Canal Grando, de sopra al traghetto che si passa a Rialto, che sono due arme de piera viva con le dette borchie dentro”.
Ci recammo allora ad esaminare la facciata del palazzo, e vi scorgemmo scolpiti due scudi gentilizi di viva pietra, quantunque essi, sia per vetustå, sia per sofferte vicende, non offrano più nel loro interno, almeno ad occhio nudo, i distintivi sopraccennati. Senonchè ben presto spari ogni dubbio, ed i nostri sospetti si convertirono in certezza al leggere in altro meno antico cronista: “i da Mosto portavano arma a quartieri giala el azura con le broche nere, come appare nella sua casa a S. Appostoli, ora Locanda al Leon Bianco“.
Nè qui sta il tutto. Questa patrizia famiglia Da Mosto, discendente dagli antichi tribuni d’Opitergio, non tanto fu chiara per lunga serie di senatori e guerrieri, quanto per Alvise, nato nel 1432 da Giovanni Da Mosto e da Giovanna Querini, celeberrimo viaggiatore. Essendo egli partito da Venezia nel 1454, in età di 22 anni, sopra una flotta mercantile capitanata da Marco Zeno, ritrovò al Capo di San Vincenzo il principe Enrico di Portogallo, che lo confortò ad un viaggio di scoperta lungo le coste Africane, armandogli una caravella, sopra la quale visitò le isole di Porto Santo, Madera e Canarie, come pure Capo Bianco, ed il Senegal. Unitosi poi ad Antoniotto Usodimare, gentiluomo Genovese, giunse alle foci del Gambia, e, ripigliato il suo corso nel 1456 con il compagno medesimo, scoprì le isole di Capo Verde, il fiume Casamansa, Capo Rosso, e Rio Grande. Finita la sua spedizione, ritornò nel 1403 in patria, ove nel 1465 prese in moglie Elisabetta Venier, ed ove fini di vivere, senza che se ne sappia però l’epoca sicura.
Abbiamo molti dati per credere che Alvise Da Mosto nascesse, ed anche morisse nel palazzo dei Santi Apostoli, poichè i genealogisti lo fanno disceso dalla linea in tale contrada domiciliata, e si ritrae che nel 1379 abitavano ai Santi Apostoli gli eredi di Giovanni da Mosto, uno dei quali fu Paolo, avo di Alvise. Che se con l’aiuto di testamenti, o con altri mezzi di prova, si potesse meglio precisare siffatta circostanza, ben sarebbe giusto che una lapide, posta sotto il portico dei Santi Apostoli all’imboccatura della Calle e Corte del Leon Bianco, ricordasse ai posteri colui che fu compagno dei Polo, dei Zeno, e dei Caboto nelle marittime glorie, e che scrisse egli medesimo un pregevole ragguaglio dei propri viaggi, a cui alcuni aggiungono un portolano, stampato per la prima volta in Venezia nel 1490 senza nome d’autore, quantunque il non vedersi in esso registrati i porti visitati e scoperti da Alvise faccia supporre che, se veramente il libro è suo, sia anteriore alle di lui grandi navigazioni.
Ma ritornando al palazzo Da Mosto, lo troviamo bene spesso nominato nelle lettere di Pietro Aretino, che nel 1537, prima di fissare domicilio sulla Riva del Carbon, vi abitava accanto. È credibile poi che l’edificio suddetto, fintantochè rimase in mano degli antichi proprietarî, si conservasse nella sua pristina integrità, e che solo, quando cadde in potere d’altre famiglie, incominciasse ad essere nella facciata e nell’interno in varie guise deturpato. A ciò forse contribuì anche l’averlo volto, come dicemmo, ad uso d’albergo con l’insegna del Leon Bianco, albergo però che qui ebbe vita per lunga serie d’anni, ed accolse principi e personaggi distinti, fra i quali l’Imperatore Giuseppe II in occasione di ambedue le sue venute a Venezia. (1)
Le tredici patere e le dieci formelle, tutte con motivi zoomorfici e antropomorfici, ispirate al simbolismo paleo-cristiano e alla mitologia greca, si possono così descrivere nelle loro figurazioni: una patera con due uccelli affrontati che si abbeverano ad una fontana (simbolo delle anime che si dissetano in Cristo); una patera con due grifoni addorsati le teste affrontate con i becchi congiunti (simbolo di Cristo e della sua doppia natura umana e divina); una patera con un uccello che becca sul capo un leporide (simbolo della forza divina che domina la lussuria); una patera con due uccelli addorsati teste affrontate tra due serpenti; una patera con due equini addorsati con teste affrontate; una patera con un uccello e un canide incrociati una patera con un felide (leone) che azzanna un canide (simbolo della forza divina che domina e vince); una patera con due uccelli incrociati; una patera con due canidi addorsati teste affrontate; una formella con un felide che azzanna un cervide sovrastanti due felidi addorsati; una formella con due pavoni addorsati soprastanti un grifone che azzanna un canide; una formella con due arpie (per l’Ariosto erano sette e rappresentavano i sette peccati capitali) che trattengono con le code due uccelli sottostanti; una formella con Cristo benedicente in trono; una formella con due pavoni (simboli dell’immortalità) affrontati tra un albero; una formella con un aquila con le ali dispiegate sovrastante due cervidi (simbolo di superiore virtù che perseguita un vizio rappresentato dagli aminali sottostanti). (2)
(1) Giuseppe Tassini. Alcuni palazzi ed antichi edifici di Venezia. Tipografia Fontana 1879
(2) sul significato dei simboli cfr.: Giuseppe Marzemin. Le antiche patere civili di Venezia. Ferdinando Ongania editore Venezia 1937; Angelica Tonizzo e Maria Rosa Sunseri. Patere a Venezia. Tipo-litografia Pistellato Marghera-Venezia 1999; Espedita Grandesso. I portali medievali di Venezia. Edizioni Helvetia 1988.
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