Le pescherie a Venezia
Le principali pescherie veneziane erano due fin dal 1200: la prima sorgeva a San Marco sull’area dove nel Cinquecento il Sansovino eresse il massiccio fabbricato della Zecca, l’altra a Rialto in quel tratto di terreno “qual comenzava a li Camerlenghi di Comun fino al traghetto va a santa Sofia, zoè a le barche che se va a Padova“.
Più tardi altre ne sorgevano di minore importanza: sulla fondamenta del Ferro a San Bartolomeo, ai piedi del Ponte di Rialto; a Castello di fronte alla Tana; a Santa Marta nella piazzetta di San Nicolò; nel campetto della Maddalena dietro la chiesa, a Santa Margherita verso la Scuola “de li Varoteri“, i pellicciai di lusso. E il pesce veniva ogni mattina fresco fresco dall’estuario, specialmente da Chioggia, da Poveglia, da Mazzorbo e si portava sui mercati di San Marco e di Rialto dove intorno al palo, una rossa antenna, si stabiliva “da li incettatori“, il prezzo di vendita secondo le condizioni commerciali della giornata, e il pesce, con quel prezzo base, veniva poi comperato dai rivenditori che lo smerciavano al minuto sui banchi delle pescherie o in giro per le strade della città.
In quei tempi il pesce valeva ben poco: lo storione, la trota, il rombo, costavano appena tre soldi la libra; le tinche grandi, i lucci, i cefali ne valevano due e mezzo; gli altri pesci più comuni come “li go, el barbone, la scarpena, el variolo, l’anguilla, el sfogio, la passera, l’orata” due soldi; “i caragoli, i folpi” e le cappe d’ogni specie costavano soltanto mezzo soldo alla libra.
Il patrizio Marco Falier della contrada dei Santi Apostoli che aveva moglie e due figli spendeva: “adì 12 zugno 1509, vezilia de misser santo Antonio, soldi quattro per pesse fino per disnar e soldi due per barbonzioni da frizer per la zena“, e si lagnava ancora che il pesce in quella giornata fosse rincarato causa solenne digiuno ordinato dal patriarca Lodovico Contarini per la guerra allora scoppiata contro Venezia: la famosa Lega di Cambrai.
Nei due ultimi secoli della Repubblica la pescaria di San Marco, spostata verso Terra Nova dopo la costruzione della Zecca, e quelle di Rialto erano sempre le principali, e i venditori di pesce fin dal primo apparire del’alba erano affaccendati a preparare i loro banchetti e le loro tende dipinte a colori vivaci, con qualche immagine sacra per protezione, simili alle vele “dei bragozzi” che venivano da Chioggia con il pesce squisito dell’Adriatico, o alle vele più piccole delle barche lagunari che recavano dalle valli il pesce dal quale la Serenissima ricavava un utile daziario annuale di quasi ottantamila ducati d’argento. Erano a migliaia i pescatori, ma gli incettatori erano per legge appena una cinquantina, e tale mestiere, che fruttava di guadagno circa una lira veneta al giorno, era riservato ai vecchi pescatori di San Nicolò e di Poveglia dopo di aver pescato per più di trent’anni e di essere giunti a sessant’anno di età. Così si voleva premiare le fatiche, le veglie, i pericoli di questi strenui lavoratori del mare.
Gli incettatori si radunavano in chiesa della Beata Vergine del Carmine sotto la protezione di San Nicolò mentre i venditori di pesce avevano una propria Scuola di devozione situata vicino alla chiesa stessa e dedicata a Sant’Alberto, e qui ogni domenica mattina, dopo ascoltata la messa, discutevano sui loro interessi e spiegavano ai giovani garzoni le parti più importanti della “mariegola de l’arte“. I pescatori di San Nicolò avevano, vecchio e speciale privilegio, la elezione “del doge dei Nicolotti“, una specie di capopopolo di contrada formalmente riconosciuto dal Governo, e la pescheria di Rialto, come di antica abitudine, gli pagava venti ducati, e la Scuola dei Carmini lo regalava ogni tre mesi di trenta lire venete prelevate dalla “casselletta“, il salvadanaio della Scuola.
Al doge vero, al Serenissimo principe, tutte le pescherie riunite offrivano a Natale duecento grossi cefali e trenta “oselle“, e i proprietari della valli da pesca dell’estuario mandavano pure in quell’occasione a Palazzo Ducale, in grandi ceste all’esterno dorate, pesce di ogni qualità, specilamente sogliole e grandi orate, nonché una quarantina di grosse e candide trote straite di rosso.
I nostri pescatori erano “marcheschi di razza“, grandi ammiratori di San Marco e orgogliosi della loro città, e non c’era avvenimento glorioso in cui nelle pescherie veneziane non sventolasse il gonfalone caudato con il leone d’oro andante. Andrea Calmo, “elevao in le pescheresse” nel 1542 cantava la vita del pescatore “In fra le nostre anzeliche lagune e intorno i palmi pescando in mille muodi“, e circa un secolo e mezzo dopo un poeta anonimo che si chiamava “Pescador de Dorsoduro” scriveva la “Tartana in Morea” esaltando le gesta di Francesco Morosini contro “li turchi cani rabiosi, mala pastura anca per li pessi de la nostra laguna ché di quella carne ribalda non ne vuole saver“.(1)
(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 12 aprile 1934.
Da sinistra a destra, dall’alto in basso: Pescaria de Cannaregio (Fondamenta de Cannaregio); Scuola di Sant’Andrea; Pescaria di Rialto; Pescaria San Bartolomeo; Misure del pesce in Campo Santa Margarita; Pescaria di Campo Santa Margarita; Campiello de la Pescaria alla Bragora; Fondamenta de la Pescaria al’Anzolo Rafael; Pescaria de Rialto; Pescaria de Rialto; Pescaria de Rialto; Fondamenta de la Tana (pescaria); Campo San Pantalon (pescaria); Pescaria de Rialto; Pescaria de Rialto; Pescaria de Rialto.
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