Vesti e lusso muliebri, tra stilisti nostrani, spreco di profumi e scarsa pulizia
Frate Bernardino Ochino in una sua predica detta nella chiesa dei Santi Apostoli nel febbraio del 1538 si scagliava contro il lusso donnesco specialmente per i gioielli, per i belletti, per i profumi: “Io son ben contento che voi andiate assettate e pulite e ben vestite, ma non tanto lusso, non dipingervi. Deh di gratia, contentatevi della bellezza che Dio vi ha dato. Oh tu dirai: io lo faccio per piacere al mio marito, ho se il fai per piacere al tuo marito, lisciati la notte ch’io sono molto ben contento“.
Varie, ricche, bizzaramente ornate erano le vesti femminili, lunghe vesti di velluto, di seta, di raso, di drappo d’oro con cintura d’argento e ampie maniche le quali terminando in punta toccavano quasi terra. Componevano l’acconciatura del capo cappucci tempestati di pietre, turbanti di filo d’argento, cuffioni di velluto ricamato e gemmato, reticelle di seta, fascie, frontali, corone di metallo prezioso o di stoffa ornata di gemme.
Particolarmente graditi alle donne erano i monili di filigrana e le catenelle chiamate in antico “entrecosei” e oggi “manini” o “catenelle di Venezia“, gentile vezzo d’oro, composto di sottilissimi anelli, che la moda bizzara ora confinò tra le classi popolari.
Nel Cinquecento le magnifiche stoffe veneziane erano accomodate alle nobildonne da abili sarti, tra i quali “valentissimo et acutissimo” mastro Giovanni che nel suo negozio “in la Merceria di san Zulian” lavorava “di queste sorte di habiti si possa imaginare da donna et massime di veste alla veneziana, che son molto difficili da fare con tanto buon gusto e originalità, tanta esperienza e dottrina, da stupire il mondo“.
In quel tempo Cesare Vecellio, cugino e discepolo del grande Tiziano, lasciava la pittura e disegnava trine e merletti, e Nicola da Venezia e Valerio Zuccato trascuravano le loro arti d’incisione e di mosaico, per occuparsi a disegnare “cuffie, vesture et frastagli” che rendevano di più “et davano più honore“.
Le donne della Dominante del secolo decimosesto parevano a detta di frate Felice Faber da Ulma nel Wurttemberg, un frate viaggiatore ed entusiasta di Venezia, “tante Venere mandate da Satanasso per tentarci“, poiché tutte le sontuosità erano profuse nelle vesti di broccato d’oro foderate di ermellino, con il manto a lunghissimo strascico, con il berretto gemmato da cui scendeva sulle spalle un velo sottile di seta, col seno scoperto lampeggiante di diamanti e di perle, con la cintura d’oro che girando sui fianchi cadeva quasi sui piedi. E quel lungo velo nero, che con fino accorgimento di eleganza dal sommo della testa scendeva giù per le spalle fino a terra, dava alle nostre nobildonne una speciale attrattiva, una attrattiva di mistero e di poesia, che Pietro Aretino, buon intenditore, affermava: “sotto il nero trasparente velo, veggonsi in carne gli angioli del cielo“.
Questo velo si tramuntò poscia in quella specie di mantellina di seta nera, che allacciava ai lombi copriva il capo e incorniciava il viso, e chiamata “vesta” o “zendà“, divenne un particolare caratteristico del costume settecentesco.
Ma all’eleganza e al lusso delle signore veneziane, non corrispondeva uquali cure nella pulizia della persona, e se i lavacri di acqua pura, che molti credevano nocivi alla pelle, non potevano dirsi soverchi, eccessivo era invece lo spreco dei profumi, delle acque nanfe, dei belletti, delle pomate odorose. Cennino Cennini, che scriveva alla fine del secolo decimoquarto, accusa le veneziane di portare, sotto le pompose e magnifiche vesti, gli intimi indumenti alquanto sudici e di non mutare che raramente la camicia, e un poeta satirico così le canzonava: chi le mirasse solo impingniolate; le lor chamicie sono assai più nere che non le more quando è ben morate.
Prima del Cinquecento le camicie da notte e le mutande, “camisias et bragas” erano quasi sconosciute, poiché in quei tempi si dormiva, a Venezia come in altri paesi, generalmente nudi e le mutande non si portavano mai. Solo nel Cinquecento, narra il Calmo nelle sue “Lettere“, le donne ballando e facendo scambietti e salti portavano sotto le gonelle le “braghesse d’ormesin per non mostra le vergogne in tel voltarse in tei scambieti“.
E’ certo che in quel secolo splendido per lusso, per fasto, per richezze, più delle gentildonne curavano la pulizia della persona “le honorate cortigiane“: facevano bollire nell’acqua del bagno giornaliero erbe odorose e si facevano asciugare dalle ancelle che le cospargevano di profumi. Così le Aspasie veneziane, monde e pulite, insegnavano alle superbe patrizie. (1)
(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 31 marzo 1932.
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