San Marco e il suo Leone

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Vittore Carpaccio. Il Leone di San Marco. Palazzo Ducale.

San Marco e il suo Leone

Non sempre l’Evangelista in figura umana o leonina fu il simbolo della Repubblica di San Marco; ma quando ciò sia avvenuto non è facile assicurare, poiché i pareri sono molti e le fonti storiche sono poche e sono incerte.

Nei primi tempi della Serenissima anche nella religione si sentiva l’influsso bizantino, ed era naturale che il protettore della nascente Repubblica dovesse essere un santo greco, Teodoro; ma quando si andarono allentando i legami con l’impero d’Oriente si volle che la nuova libertà fosse posta sotto la tutela di un santo che meglio rispondesse al sentimento nazionale. Già una vecchia tradizione, riportatta dalla cronaca del Dandolo, narrava che l’Evangelista fosse il fondatore della chiesa metropolitana di Grado, e a lui, che veleggiava nella calma lagunare presso le isolette rialtine, si diceva fosse apparso un angelo salutandolo con le parole: “Pax tibi, Marce, hic requiescet corpus tuum“, e annunciando che una grande e ricca città sarebbe sorta su quelle povere e deserte isolette.

Oggetto di culto per i Veneziani era altresì la cattedra di marmo, oggi conservata nel Tesoro marciano, che si credeva di San Marco, ed era stata donata, intorno al seicento dall’imperatore Eraclio a Primigenio patriarca gradense.

Nell’anno 828 avvenne lo strano trafugamento del santo da Alessandria, dove Buono di Malamocco e Rustico da Torcello, violando una legge che vietava ogni commercio con i Saraceni, approdarono e involarono la sacra reliquia, certamente aiutati dalla Repubblica che l’accolse con grande venerazione, deponendola provvisoriamente nell’oratorio ducale di San Teodoro. Giustiniano Partecipazio, allora doge, pensò subito a erigere un tempio degno dell’Evangelista, e il tempio lentamente sorse tra fabbriche e rifabbriche, tanto, racconta sempre la tradizione, che venne un giorno in cui si dimenticò il luogo dove si era deposto il corpo di San Marco, e per ritrovarlo si ricorse alle preghiere, ai digiuni, alle penitenze.

Dice il Molmenti, con acuto senso di critico, “mancava ancora una sanzione celeste alla scelta dell’Evangelista come protettore di Venezia, e i governanti accorti l’hanno forse occultamente preparata“. Il 25 giugno 1004, il popolo è radunato nel tempio: fervide preghiere si rivolgono a Dio e si diffonde tra la folla quasi il presentimento di un prodigio. Ed ecco si apre ad un tratto un pilastro della chiesa e appare un braccio del santo, che è nuovamente affidato alla custodia di Venezia fatta più sicura e più lieta, non solo per aver ritrovato il corpo benedetto ma per la sensazione celeste di possodere il suo naturale protettore nei suoi secoli gloriosi.

Quarant’anni più tardi il busto del santo nimbato si vede nel denaro veneziano coniato alla Zecca che si trovava allora nell’attuale fondamenta del Ferro, chiamata in quei tempi della Moneta, accanto al Ponte di Rialto, dalla parte di San Bartolomeo.

Le prime monete che recano nel loro conio la figura di San Marco furono il denaro detto di Enrico III, del 1046, il grosso o “matapan” di Enrico Dandolo, doge nel 1202, e la si trova anche nel suggello di una bolla di Vitale Michiel II, al comune di Arbe nel 1166.

Come insegna della Repubblica non esiste invece un sacro leone con tutti i suoi attributi prima del secolo decimoquarto, ed è quindi probabile che i Veneziani non abbiano prima del Trecento accolto come insegna il leone alato. Qualche vecchia cronaca afferma che il leone sia stato adottato come emblema politico dopo che cominciò a divulgarsi nel secolo decimoterzo la “Leggenda aurea” di Jacopo da Varagine, dove San Marco è descritto sotto forma di leone ruggente, ma è noto che sino dai primi tempi cristiani l’Evangelista, insigne martire della fede, era allegoricamente rappresentato per mezzo da un leone. La Repubblica ancora nel quattrocento, aveva sulle bandiere la croce, e i primi leoni rampanti sulle monete dello Stato, nimbati, ma senza ali e senza libro, appariscono soltanto nel 1330 nel soldino o “genogleto” di Francesco Dandolo, e con il nimbo, le ali e il libro chiuso sul “tornese” di Andrea Dandolo nel 1342.

Due antichi bassorilievi, uno sulle pareti del campanile di Sant’Apollinare, l’altro conservato nel Museo Correr, mostrano il simbolico animale accosciato, col nimbo, le ali tese a raggiera, le zampe anteriori recanti il vangelo, nella forma che si chiama a “moleca” per la rassomiglianza con il noto crostaceo. Il leone a moleca fu adottato sulle “gazzette“, piccole monete d’argento del valore di due soldi veneti, coniate nel 1538 dal doge Andrea Gritti, mentre la classica insegna sui vessilli e sugli edifici pubblici dello Stato, rappresentava il leone andante sulle onde e sulla terra incastellata, con le ali e il libro aperto.

In molte immagini il leone serra tra le zampe il libro aperto con le parole: “Pax tibi Marce, Evangelista meus“, in altro il libro è chiuso, ed è erronea la credenza popolare che il libro aperto sia il segno di pace e l’altro chiuso il segnale di guerra, poiché i due libri si presentano chiusi od aperti, tanto in tempo di pace quanto in tempo di guerra.

Così il simbolo religioso diventò l’insegna della gloria e della potenza della Repubblica e fu potente sui mari e gloriosa sulla terra. (1)

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 22 gennaio 1933

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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