I nuovi patrizi per soldo
Candia l’antichissima Creta, famosa per la guerra durata venticinque anni che i Veneziani sostennero nel 1644 contro i Turchi e per gli ubertosi possedimenti che aveva la Repubblica in quella splendida isola del Mediterraneo, è ancora ricordata, appunto per le conseguenze della terribile e interminabile guerra da un vecchio adagio veneziano “esser incandio“, che vale per essere poverissimo, povero in canna. E difatti per la difesa di quel suo prediletto possedimento la Serenissima nel solo anno 1658 spese la somma di ben quattro milioni e trecento novantaduemila ducati d’oro, somma per quei tempi addirittura meravigliosa, e così l’erario della Repubblica si trovava in pessime condizioni, quasi esaurito nelle sue principali fonti, sebbene si fosse ricorso qualche volta a nuove tasse e a qualche vendita tratta dal ricco Tesoro di San Marco.
Una buona idea per rifornire il pubblico erario, stremato dai gravissimi danni di guerra, sorse nel patrizio Marco Antonio Contarini, uomo d’ingegno pronto e che ben conosceva l’arte di sfruttare la grande ambizione della gente; ne fece parola al principe Francesco Molin, e nel luglio del 1646 il Maggior Consiglio decretava che verrebbero ascritti al Veneto patriziato coloro che pagassero ducati centomila, dei quali sessantamila a titolo di dono e quarantamila investiti nella zecca con il relativo annuo interesse del tre per cento. La seduta fu abbastanza tumultuosa: non tutti erano d’accordo parecchi fra gli antichi patrizi delle case vecchie sostenevano piuttosto che profanare il Libro d’oro era molto meglio vendere le pubbliche entrate, anche qualche provincia se fosse stato necessario, ma non mai la nobiltà, quella era sacra, dicevano loro, però il bisogno era urgente e il decreto passò a maggioranza di voti e la ricca classe mercantile, una specie di “pescicani” di allora, entrò trionfante nella splendida sala nel Consiglio Maggiore, che vide per la prima volta quei visi nuovi di ambiziosi arricchiti, in pochi giorni la Zecca ducale raccolse più di sei milioni di ducati, e aveva gran ragione Marco Antonio Contarini di avere fede nell’ambizione umana: i primi a soccorrere per vestir la toga furono i Widmani, tedeschi, da principio “bastasi“, facchini al fondaco dei Tedeschi; seguirono i Fonseca, spagnoli, negozianti di zucchero; i Zanardi, giunti alle lagune “miserabili et dolenti et pestapevere dal spezier del Guanto all’ascensione“; i Raspi mercanti di vino; i Bergonzi venditori di seta e drappi d’oro a San Salvador e all’insegna della Rosa d’Oro; i Pasta, mercanti di “gabbani“, mantelli, per galeotti e soldati; i Zoilo salumieri che “praticavano Rialto con la traversa bianca e manegotti“; i Verdizzotti figli di un sarto che “da putto accompagnava un orbo“; e tanti altri che avevano arricchito rapidamente, qualcuno anche con mezzi non troppo laudativi.
La vecchia aristocrazia, se pur si adattava a ricevere nel proprio seno uomini soltanto doviziosi, non voleva mai essere confusa con essi, e i nuovi nobili non erano quasi mai chiamati agli uffici più importanti, come quelli delle ambascerie, raramente riuscivano a far parte del Collegio e più raramente ancora potevano allearsi con vincoli di parentela alle vecchie casate, le quali preferivano unirsi alle famiglie loro uguali per antico lignaggio.
I nobili di gran sangue guardavano con disprezzo i plebei arricchiti che indossavano la vesta patrizia, mentre la satira anonima in versi e in prosa diveniva sempre più mordace ed irosa contro il risalito che mercé i denari entrava in Maggior Coniglio: “El se fa zentilomo e con stupor dalla stalla alla reggia el va un t’un passo”. E il veneziano Francesco Busenello, scriveva: “Un pezo de vilan de la valada / Un capel de casto, porterà in testa / Un ch’à portà sportele mere vesta, Un zavater ga pan e vin d’intrada“.
Una sola famiglia, a quanto dice un manoscritto del Cicogna, ebbe le incondizionate simpatie delle antiche case nobili veneziane e furono i Gambara della contrada della Carità, i quali ottennero la toga non solo per il pagamento dei centomila ducati, ma anche per i servizi resi alla repubblica come nella guerra contro i turchi nel 1571 mantenendo a proprie spese tutto un reggimento, così nel 1605 per i suoi buoni uffizi presso la Corte Romana all’epoca dei dissensi con il papa Paolo V. Eleonora Gambara si maritò con Francesco Morosini nel 1678,e a quel matrimonio concorse quasi tutta la gente patrizia delle case vecchie per fare onore ai Gambara e rallegrarsi con i Mocenigo della bella sposa discendente da quella Veronica Gambara, distinta poetessa cinquecentesca, sposa di un signor di Correggio.
Ma una rondine non fa primavera, e il disprezzo per la nuova nobiltà a suon di ducati durò fino al termine della Repubblica, che cadde anche per colpa, e forse non ultima, delle scissure, degli antagonismi, delle turbolenze da cui era agitato l’ordine nobiliare. (1)
(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 18 febbraio 1934
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