Il Doge e il Ballottino

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Tiziano Vecellio - Doge Antonio Grimani inginocchiato davanti alla fede (particolare) - Sala delle Quattro Porte. Palazzo Ducale

Il Doge e il Ballottino

Nei primi tempi l’elezione del doge era circondata da grandi cerimonie religiose, come appare dalla descrizione del chierico Domenico Tino, che fu presente, nel 1701, alla elezione di Domenico Selvo. Quasi tutto il popolo di Venezia, “innumerabilis multitudo” approdò al Lido e nella chiesa del monastero di San Nicolò e nella chiesa del monastero di San Nicolò, i vescovi con il clero, implorarono Iddio, affinché volesse concedere alla loro patria un doge gradito. Finite le cerimonie fu acclamato a gran voce il nome di Domenico Selvi. Immediatamente molti nobili alzato sulle spalle il Selvo e seguiti da immensa folla, condussero l’eletto alla nave che tornò a San Marco. Il Selvo si tolse i calzari e, sceso tra i canti religiosi del clero e del popolo entrò a piedi nudi, “nudis pedibus“, e quindi alzatosi e preso dall’altare di San Marco il “baculum“, insegna di comando, si recò al palazzo dove ricevette il giuramento di fedeltà del popolo, e cui fece distribuire doni di pane, formaggio e vino.

Così erano eletti i dogi veneziani qualche anno dopo il mille, e la concione composta dal patriarca di Grado, dai vescovi, dagli abati dei monasteri, dalle famiglie nobili e dal popolo era il solo organo deliberante e sovrano, e la elezione ducale avveniva sempre per acclamazione dell’assemblea che si raccoglieva, al suono delle campane, talvolta a San Marco, e tal altra a San Nicolò del Lido.

Ma l’aristocrazia veneziana era insofferente di tali vincoli ecclesiastici e popolari, essa tendeva a costituirsi in casta chiusa, e prendendo occasione dalla morte violenta del doge Michiel, tolse al popolo, assembrato nell'”arrengo“, la elezione del doge, facendolo invece eleggere da undici elettori, scelti dal Maggior Consiglio, i quali nella Basilica marciana nominavano il capo dello Stato, che veniva poi presentato al popolo con le parole: “Questo xe Missier lo dose, se ve piaxe“.

Eletto in tal modo, nel 1172, Sebastiano Ziani, il popolo, vedendo che dei suoi diritti non gli restava che la parvenza, si levò a rumore; ma gli ottimati, mostrando come le nuove riforme non mirassero che a meglio ordinare l’elezione del doge, persuasero i turbolenti ad accontentarsi della sola approvazione e il nuovo eletto rafforzava questi argomenti gettando denari alla plebe.

Il primo passo era fatto, la nobiltà aveva vinto e vinse sempre, tanto che nel 1289, la procedura per l’elezione del doge, complicata più che mai, per timore del “brolio“, era già un fatto compiuto, e questo magistero di combinazioni, parte fortuite, parte intenzionali, rimase fino alla caduta della Repubblica, però non togliendo del tutto né gli abusi, né le protezioni, né le corruzioni.

Morto il doge e fatti i solenni funerali, il Consigliere più giovane del principe defunto entrava nella chiesa di San Marco, e dopo aver fatto una breve preghiera, uscendo dalla Basilica conduceva con sé quel primo “putto” che incontrava nel suo cammino, e fattolo entrare nel palazzo ducale, lo vestiva tutto a nuovo con sopraveste di color rosso e il giubbetto foderato di pelli se l’inverno, di raso se d’estate, calzette e scarpe scarlate con fibbia d’argento e nastri al polpaccio di seta nera.

Era questi il “balotin” per l’elezione ducale, al quale erano commesse le molteplici operazioni delle varie ballottazioni il cui svolgimento era lungo e complesso; raccoltosi il Maggior Consiglio, e allontanati i membri al disotto dei trent’anni, si ponevano nell’urna tante palle, di cui trenta dorate, quanti erano i presenti.

Ai componenti l’assemblea, chiamati uno per volta, veniva consegnata la palla estratta a mano dal “balottino” così che rimanevano primi elettori i trenta cui toccava la balla d’oro. Riposte quindi nell’urna nove palla d’oro e ventuno d’argento si estraevano i nove che dovevano nominare i quaranta, da cui si sorteggiavano i dodici, che eleggevano i venticinque per il sorteggio degli altri nove, che sceglievano i quarantacinque, dai quali si traevano a sorte gli undici che finalmente, nominavano i quarantuno veri e immediati elettori del doge che doveva riportare almeno venticinque suffragi.

Eletto il principe, questi prendeva cura speciale del suo ballottino, e per un anno intero il fanciullo era ospite del Palazzo Ducale, sedeva nelle sedute ordinarie sopra uno sgabello nella sala del Collegio, precedeva il doge nelle solenni processioni e lo si faceva intanto istruire nelle scuole.

Se il fanciullo, quasi sempre un povero “putto” di nascita illegittima, mostrava ingegno vivace gli era aperta la carriera dei segretari della Cancelleria ducale, se poi non avesse corrisposto negli studi gli si dava un regalo in denaro o un qualche posto secondario nella milizia o sulle navi dello Stato. In qualsiasi caso essere stato ballottino era sempre una fortuna!.(1)

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 5 marzo 1933.

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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