I quattro Tetrarchi di porfido scuro, Basilica di San Marco, facciata verso la Piazzetta

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I Pilastri acritani e i Tetrarchi. Basilica di San Marco, facciata verso la Piazzetta

I quattro Tetrarchi di porfido scuro, Basilica di San Marco, facciata verso la Piazzetta

Nell’angolo esterno della stanza del Tesoro di San Marco, di prospetto alle colonne Acritane e vicino all’ingresso della Porta della Carta, stanno scolpite nel porfido quattro figure di guerrieri, di principi o di re che si abbracciano in due gruppi. Alcuni cronisti dicono che le sculture vengono da Acri, altri da Creta, ma ormai è quasi certo che i due gruppi di porfido furono tolti a Costantinopoli nel 1205 quando quella città fu presa dai Veneziani sotto il comando del vecchio doge Enrico Dandolo. E così con i quattro cavalli del pronao della Basilica, con la pietra del bando pure in porfido e con le due colonne di Marco e Todaro, anche i quattro misteriosi personaggi vennero a Venezia.

Chi siano non si sa e molte furono le congetture. Il famoso critico d’arte tedesco Steinbuchel disse che sono quattro Cesari romani, i due verso la porta della Carta: Costantino Cloro con la barba, l’altro sbarbato Galerio Messimiliano; gli altri due, dirimpetto alle colonna d’Acri, Galeno Valerio Massimino e Flavio Valerio Severo. Qualcuno mandò all’aria le storie, affermò che rappresentavano i quattro maggiori collegati di Cambrai contro la Repubblica nel 1509, non pensando che in quell’epoca quei gruppi de circa trecento anni stavano al loro posto nel duro marmo scolpiti.

Cesare Vecellio, cugino e discepolo del grande Tiziano, parlando di quelle quattro figure nel suo famoso libro “Habiti antichi e moderni” le dice venute dalla Grecia e narra, basandosi sopra un’antica tradizione, che erano le immagini di quattro principi spodestati i quali miseri e infelici veleggiavano per il mare in cerca di fortuna. E veleggia e veleggia, una bufera li portò nelle lagune dove seppero che a San Marco c’era un grande tesoro, immensamente ricco di gemme, di oro e di reliquie.

Seppero e subito decisero di scendere a terra, rubare il tesoro e con quello recuperare i troni perduti. Giunti a San Marco, due principi scesero in cerca di vettovaglie, ma gli altri due rimasti a bordo, pensarono: “Quando son di ritorno li amaziamo et nui si resta padroni dil tesoro“. E quelli a terra fecero lo stesso ragionamento: “Il tesoro sarà di nui si (se) nelle vituarie mettiamo il veleno“.

Così fecero: due morirono di ferro, gli altri due di veleno. Nela piccola galera greca, dove accanto ai quattro cadaveri stava in lagrime un vecchio ilota si scopersero i due gruppi di porfido che somigliavano ai morti, e interrogato il servo, si seppe del sacrilego progetto e dell’orribile tragedia dei quattro re spodestati. Il vecchio ilota venne affogato, i quattro cadaveri bruciati e le ceneri sparse al vento, e la figure di porfido furono messe nell’angolo esterno della stanza, custodia di quel tesoro che si voleva rubare. 

La Repubblica, e qui la storia casualmente confermerebbe la tradizione, fece scolpire sul marmo al di sotto delle due statue che stanno vicine all’ingresso del Palazzo Ducale una breve iscrizione che tutt’ora si legge e che è una delle più antiche in dialetto veneziano:

L’om po far e die in pensar e vega quello che li po inchontrar

Proverbio questo che equivalente al nostro moderno che suona: “Prima di fare e dire, pensa a quel che può seguire“. Severo ammonimento messo colà a frenare i ladri che tentassero derubare il Tesoro, o i ribelli che volessero invadere il Palazzo Ducale. (1)

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 16 settembre 1927

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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