I mulini della Repubblica

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Campo San Nicolò del Lido. Pietra che ricorda il luogo dove esiteva un antico mulino.

I mulini della Repubblica

Antichissimi furono a Venezia i mulini mossi ad acqua ed a vento, scomparsi dalla città verso la metà del Quattrocento, ma durati più a lungo a Murano, per le isole dell’estuario e specialmente nelle province dove qualcuno a forza idraulica si vedeva ancora ai nostri giorni. 

Il più antico documento che ne parla risale al 1152 e riguarda un tale Marco Zuane a cui la Repubblica aveva concesso l’uso gratuito di un terreno a San Simeone profeta, vulgo San Simon grande, per costruirvi un mulino di legno. Più tardi sorsero mulini a San Gregorio, a San Felice presso la ca’ Dolfin, a San Samuele, a San Giobbe e a Sant’Andrea “in cao de zirada“, e nel 1356 il Governo prestò mille ducati d’oro a un certo Bonavisa falegname e a mastro Zonta da Ferrara, ambedue quattro mulini nel canale di San Piero di Castello, col l’obbligo di restituire il prestito in rate annuali di ducati centocinquanta, mallevadore Lorenzo Querini di Santa Maria Formosa.

Nelle isole si costruivano per lo più mulini a vento; Torcello, Sant’Erasmo, Mazzorbo ne avevano due ciascuna, così Poveglia e San Cristoforo, tre invece ne aveva l’isola delle Vignole, ma prima fra tutte era Murano che aveva cinque mulini “a vento de piera” tra i più belli e i più alti dell’estuario. Nel 1332 la Repubblica concedeva a Bartolomeo di Santa Ternita una parte della palude posta tra l’isola di San Michele e le Fondamente Nuove per la costruzione di quattro mulini a vento, mossi quasi sempre dalla brezza che direttamente veniva dal porto di San Nicolò del lido, i quali ebbero subito il monopolio dei granai di Campalto “a soldi octo per ogni ster de masenatura“.

In terraferma invece sulle sponde dei fiumi venivano mossi sempre ad acqua, e pittoresche e rumorose erano le rive del Brenta e del Sile con i loro mulini dalla ruota gigantesca che, appena compiuto il raccolto del nuovo grano, lavoravano giorno e notte a macinarlo.

I “Giustizieri nuovi“, con l’attività propria di quei tempi, ispezionavano due o tre volte al mese tutti i mulini della città e del territorio sotto gli ordini dei “Savi sui mulini e pestrini” ed erano severi nelle multe e nelle condanne per la qualità delle farine o per la cattiva macinazione. Dei “pestrini“, dal latino “pistrinum“, luoghi dove si macinava il grano a mano o con mole grosse mosse da vacche malandate o da vecchi cavalli, parecchi esistevano anche in città: a San Pantalon, a Santa Maria Mater Domini, a Santa Maria Zobenigo, a Sant’Antonio di Castello e in molte altre contrade. Il pestrinaio era chiamato anche mugnaio come Andrea Todaro, mugnaio a San Canciano, che nel 1348 uccise Antonio “pestriner” della stessa contrada per gelosia di mestiere e venne poi impiccato e squartato nel medesimo anno nel campiello del Pestrin, oggi comunemente chiamato campiello “Galeto” dove abitava l’assassinato.

Scomparsi da Venezia i mulini nel Quattrocento, vennero però ripristinati nella famosa lotta di Cambrai quando le truppe tedesche condotte da Massimiliano, dopo fallito l’assedio di Padova, si spinsero devastando e distruggendo, fino all’ultimo confine del continente verso Marghera. I quella terribile circostanza, volendo la Signoria assicurare per ogni evento il pane alla città, ordino alle navi grandi acquisti di grano e ricorse subito alla costruzione di mulini a vento sulle secche lagunari e di mulini ad acqua nei maggiori canali. Il popolo guardava con ansia a quei mulini che rappresentavano per lui la lotta terribile tra la Repubblica e i collegati di Cambrai e solo quando li vide abbattere nel 1529 dalle maestranze dell’Arsenale proruppe in alte grida di gioia: la guerra durata più di vent’anni, era finita e con la pace di Bologna, Venezia riaffermava ancora sull’Adriatico la sua sovranità, fondamento della sua potenza. (1)

Tommaso Temanza, architetto ed ingegnere della Serenissima Repubblica di Venezia, nel suo Antica Pianta dell’Inclita Città di Venezia (1785), fa una terza ipotesi sul funzionamento dei mulini a Venezia, e in particolare di quelli situati nella piscina di San Daniele e nell’isola di Santa Maria delle Grazie.

Il Temanza ipotizza che questi mulini non potevano essere, che piantati sopra natanti, come sono quelli sul Po, e sull’Adige, o incassati nel mezzo di qualche casa e natanti sopra un canale, mosse le loro ruote dal flusso, e riflusso del mare.

L’acqua presa con industria da canali profondi, in tempo di massima dozana, cioè di riflusso, poteva dar moto a qualunque macchina. Anche ai giorni nostri nei punti forti delle dozane comunemente si dice l’acqua corre tanto che condurrebbe un mulino. Così dovevano funzionare anche i mulini interni della città. (2)

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 23 marzo 1928

(2) Tommaso Temanza. Antica Pianta dell’Inclita Città di Venezia (1785)

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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