La giustizia a Venezia; le condanne per i sacrileghi

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Ponte de la Madoneta. Sestiere di San Polo

La giustizia a Venezia; le condanne per i sacrileghi

Presso i veneziani imperversò fin dagli antichi tempi il vizio della bestemmia nonostante le leggi severe che cercavano sempre, ma invano, di porvi un rimedio. Una deliberazione del Maggior Consiglio del 1231 stabiliva che il bestemmiatore fosse punito con una grossa multa e nel caso non potesse pagarla dovesse venire tuffato nell’acqua per cinque o sei volte tra le urla e le invettive della folla. Nel 1269, sempre se non pagava, si aggiunse all’immersione nell’acqua, la pena della berlina e più tardi fu ai bestemmiatori serrata la lingua in uno strettoio, chiamato “giova“.

Ma se molto si bestemmiava a Venezia, anche le immagini sacre non sfuggivano alla perversità di molti esaltati e le cronache del tempo narrano parecchi esempi tra i quali sono tipici lo sfregio avvenuto nel 1290 al Crocefisso sull’altare del Capitello nella Basilica Mariana e quello fatto nel 1359 ai santi affrescati sul muro del campanile di San Marco in cui figuravano la beata Vergine, il figlio suo Gesù Cristo e San Marco protettore nostro.

Le pene per questi ultimi delitti erano maggiori di quelle riservate  ai bestemmiatori e si ricorreva quasi sempre alla fustigazione, alla galera a tempo e a vita, all’amputazione di una mano, alla relegazione (confino) perpetua.

Quando nel 1359 fu avvertita la Signoria che mano ignota aveva vilipeso le effigie di Maria, di Cristo e di San Marco dipinte “in muro campanilis nostri beati Marci“, il Governo per avere i sacrileghi nelle mani aveva proclamato, nei soliti luoghi di San Marco e di Rialto, uno dei suoi bandi col quale prometteva un premio di lire trecento e chi avesse accusato i colpevoli, e colui che essendo partecipe o complice del delitto avesse svelato il nome del compagno o dei compagni, avrebbe non solo avuta l’impunità, ma un compenso di lire duecento.

Il bando rimase lettera morta, nessuno portò la luce nel delitto e la Signoria rinnovato il proclama per ben due volte senza alcun frutto, mise l’incartamento negli archivi. 

Ma quattro anni più tardi nuovi delitti sacrileghi misero a rumore la Signoria: le immagini sacre di alcuni tabernacoli sparsi per la città erano state trafitte a colpi di coltelli, lordate con fango e con pece, imbrattate con parole offensive e il colpevole era scomparso.

Nuovo bando con la promessa di premio maggiore; ordini severi ai Signori di notte, ai capi contrada, ai fanti della Quarantia; i pievani lessero il bando nelle chiese e questa volta, dopo alcuni giorni di ricerche, d’investigazioni, di appostamenti, venne tratto in arresto, anche  per confidenze avute, un tale Giovanni Marino, orefice, della contrada di San Pantaleone.

Il 23 novembre 1364 fu deliberato nella Quarantia criminale, all’unanimità, di procedere contro l’arrestato, il quale aveva già confessato sotto la tortura, i suoi numerosi delitti sacrileghi, spinto da un odio che lui stesso chiamava diabolico, e che non sapeva spiegare, contro quelle immagini sante dipinte od affrescate, e fu severamente condannato, sebbene il doge Lorenzo Celsi, religiosissimo, avesse proposto “una parte” ancora più severa.

Difatti, tra la sorpresa generale, il Serenissimo aveva proposto che il disgraziato fosse legato su di un cavallo con la faccia verso la groppa, e condotto in ogni luogo dov’era avvenuta la profanazione gridando un banditore la sua colpa, e poi, ricondotto a San Marco ad attaccato ad un palo tra le due colonne della Piazzetta, venisse bruciato vivo. La giustizia di San Marco era severa ma non spietatamente crudele e la Quarantia criminale scartò la proposta del Doge.

Giovanni Marino fu messo sopra una “peata” e portato per il Canal Grande da San Marco a Santa Croce con accanto “un comandador” che stridava la sua colpa, poi dalla Croce venne condotto a San Barnaba e dinanzi alla figura della Vergine che aveva vilipeso gli furono date dodici frustate; poi passò sotto il portico di San Polo davanti l’effige distrutta, al Ponte di ca’ Pisani oggi della Madonnetta, accanto al Ponte di Sant’Aponal, e quello della Misericordia, al Ponte di San Domenico, davanti la cattedrale di Castello, sette stazioni di crudele penitenza ricevendo in ciascuna dodici sferzate.

La terribile via crucis di mastro Marino durò più di cinque ore e menato dopo nelle carceri inferiori di Palazzo Ducale, nella oscurità della prigione dovette finir la sua vita. (1)

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 3 maggio 1931

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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