La bauta

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1740
Pietro Longhi. Colloquio fra baute. Cà Rezzonico

La bauta

A Venezia nel settecento la “bauta” nel suo insieme era un abito da maschera sul volto una mezza larva di stoffa o di cartone verniciato quasi sempre bianca, sulle spalle in tabarro di seta nera, in testa un capello a due o tre punte. Ma più che una maschera era un vero travestimento di cui non si trova traccia in alcun’altra città e il cui uso continuava anche dopo il carnevale per circa sei mesi dell’anno.

Era un abito che rendeva tutti uguali quelli che lo portavano, scompariva con esso la persona, fosse principe, magistrato, religioso o avventuriere, e rimaneva soltanto una incognita “siora maschera” rispettata e riverita da tutti i veneziani.

Ad essa erano aperti i casini di conversazione, le case patrizie e perfino le stanze ducali, mentre per le altre maschere era solo tollerato il transito per il cortile ducale tra le due porte della Carta e quella del Frumento sul Molo. Tale rispetto si estendeva anche alla donna non mascherata, fosse pure una cortigiana, a braccio di una bauta poiché la più piccola offesa fatta alla donna era considerata come rivolta alla maschera.

Nel corredo nuziale di Elisabetta Mocenigo, andata sposa nel 1706 a Piero Duodo quondam Francesco, si trovano tra gli abiti di raso, di velluto, di seta, le pellicce di castoro, “le braghesse di damasco, le pettorin, le stolette“, anche “due baute complete di merlo et una di velo ricamato con tre cappelli e ponta di feltro nero“. La bella Elisabetta aveva già pensato prendendo marito di darsi un po’ di svago con la bauta che fino allora le era stata proibita perché donzella.

Anche gli ambasciatori esteri presso la Repubblica, che per legge non potevano mai essere ricevuti dai patrizi nei loro palazzi, ricorrevano qualche volta a quel travestimento per vedere e ammirare il lusso delle feste sotto l’egida della inviolabile maschera nazionale.

Così non per curiosità, ma per risolvere una questione che poteva creare imbarazzi e malintesi tra due stati, Gian Giacomo Rousseau ricorse alla bauta.

Egli era nel 1744 segretario dell’ambasciatore di Francia, De Montaigu, e nell’ambasciata si trascinava una certa questione di commedianti scritturati a Parigi dalla Commedia italiana d’ordine del Re, ma che non partivano mai perché trattenuti dal patrizio Anzolo Giustinian di San Basegio, uno dei proprietari del teatro di San Luca, innamorato di una tale Corallina.

Alle rimostranza della Corte di Francia, alle incertezze dell’ambasciatore Rousseau si decide: veste la bauta e presa la gondola dell’ambasciata si reca al palazzo Giustinian. Al vedere la gondola con i colori di Francia i servi del patrizio restano stupefatti, pure annunciano “la siora maschera” che è subito ricevuta. Rousseau entra, reclama i comici in nome del Re, poi si toglie la larva, dice il suo nome, saluta e parte.

Il povero Giustinian corre al Consiglio dei Dieci, racconta della visita ricevuta e il Consiglio gli ordina la immediata partenza dei comici, non senza averlo severamente rimproverato.

La bauta apparve sovente nei decreti degli Inquisitori di Stato e ai direttori delle compagnie comiche fu ordinato nel 1776 “pena le vita” di non lasciar entrare in teatro nessuna nobildonna “quando non sia vestita in bauta coll’abito solito usarsi” e ciò per togliere il grave inconveniente “della licenziosa troppo avvanzata libertà con la quale comparivano nei palchetti“.

La vecchia gentildonna Pisana Grimani, proprietaria del teatro di San Samuele diffidando dei soliti portinai, sorvegliava essa stessa, nascosta sotto la bauta l’entrata degli spettatori, mentre Giacomo Casanova, confidente allora del Consiglio dei Dieci, si occupava della morale nell’interno del teatro.

Anche la bauta degenerò negli ultimi anni della Repubblica: servi a coprire le spie, i biscazzieri, gli avventurieri, i traditori, e fu anche la maschera dei famosi democratici che congiuravano contro San Marco. (1)

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 7 dicembre 1928.

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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