La giustizia a Venezia; le condanne dei bestemmiatori
Nell’antica cronaca di Girolamo Priuli si legge che alla fine del Quattrocento e nel secolo seguente “due cose a Venetia erano molti difficile da disfare; la bestemmia usata da ogni grado di persone et li vestimenti alla francese ancorché quella Natione fusse così odiata da tutta l’Italia“.
Le bestemmie atroci e le rabbiose maledizioni erano comuni nel popolo, ma non ne andavano immuni parecchi degli stessi patrizi e neppure i preti, nonostante che i secolari fossero puniti con il taglio della mano o della lingua e con la perdita degli occhi, e i preti con il supplizio della “cheba“, sospesa ad un palo alla metà circa del campanile di San Marco.
Così gli Annali del Malipiero raccontano che nel 1493 il patrizio Zuane Zorzi della contrada di San Maurizio per aver bestemmiato ebbe tagliata una mano e la punta della lingua, e tre anni dopo un tale prete Agostino veniva condannato a sette mesi “serado in cheba a meggio (a mezzo) il campanil a pane et acqua perché zogando bestamiava“.
Già fin dal 1437 parve necessario alla Repubblica di istituire il magistrato degli “esecutori contro la bestemmia“, ma sebbene fosse nota la severità del nuovo tribunale che spesso ricorreva “a la galia, a la corda, al bando, overo ad altre sorte di pene“, pure il turpiloquio non cedette di un palmo, e il disonesto vizio che sonava oltraggio alla religione e sfregio al dialetto, dolce nelle consuetudini della vita e solenne nei comizi della patria, imperava sempre sfrontatamente nelle lagune.
Il Sanudo nei suoi Diari, nel marzo del 1510, quando nella famosa lotta della lega di Cambrai la fortuna sorrideva un po’ ai veneziani, annotava: “in questi zorni per Colegio fo scrito una lettera a li Provedadori in campo perché dovesseno persuader quelli soldati a non biastemar per non iritar l’ira dil nostro signor Dio contro de nui, maxime hora che le cosse nostre vanno prosperando. Et essi provedadori risposeno: queso è impossibile remediar per esser mal vecchio come in Venetia, et si ‘l volesse proveder bisognaria far a la turchesca, che come biastemano sono taiati per mezo“. Il provveditore Andrea Gritti, spirito arguto, aggiungeva: “Si amaziamo tutti li biastematori, la Serenissima non haveria più soldati in campo“.
Ma il magistrato “de li esecutori contro la bestemmia” se non poteva combattere l’orribile vizio dei militari che difendevano San Marco, cercò con tutti i mezzi, se non di estirpare almeno di attenuare la bestemmia nella Dominante, e d’accordo con i Signori di notte mandava fanti e spie dappertutto, “furatole, osterie, magazzeni, malvasie“, con la speranza di dare un buon esempio alla città.
E l’esempio venne: era il 10 aprile 1519 quando nell’osteria “dil Bo“, situata in Calle San Matteo a Rialto, poco lontano dalla chiesa ora distrutta, due fanti del magistrato avevano inteso che ogni sera si raccoglieva una certa combriccola a giocare e “biastemiava zugando et che biastemava manco pagava el scoto qual era vino et manziari“. Figurarsi le bestemmie di quei giocatori.
Il 12 dello stesso mese, quattro uomini erano seduti in una stanza dell’osteria, attigua a quella dove erano raccolti i compari e le bestemmie fioccavano con un crescendo rabbioso tra le risa, le grida e il buttar delle carte battendo forte sulla tavola. A un certo momento i quattro si alzarono e con gli stocchi sguainati entrarono nella stanza; i bestemmiatori furono arrestati “et era in sua compagnia un prete di san Cassano et uno fiol de l’oste di la Cerva” nella contrada di San Bartolomeo. Furono condotti nelle prigioni del Palazzo Ducale e il processo fu breve; erano stati colti in flagranti e la condanna si volle severa: “fo preso sabato poi nona mandarli in una piata per Canal grando, gridando la sua colpa, poi a Rialto per mezo l’osteria dil Bo li isa tajà la lengua et po a san Marco, in mezo le do Colone conduti, li sia cavà li ochi et la man destra et sia tutti tre confinai in questa terra a esempio di altri“.
Il prete fu consegnato al patriarca Antonio Contarini che lo fece rinchiudere nelle sue prigioni “per pinitencia de soi pechadi“, ma la penitenza fu tale che dopo due anni il prete moriva. La condanna “fo cosa notanda” e per qualche giorno per le strade di Venezia e per le sue osterie più nessuno bestemmiava, ma poi il popolo continuò a bestemmiare, “magari sottovoxe, magari pian pianin perché Dio non lo sentisse“. (1)
(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 8 gennaio 1931.
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