L’andata del doge, nella notte di Natale, a San Giorgio Maggiore

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Isola di San Giorgio Maggiore, verso sera

L’andata del doge, nella notte di Natale, a San Giorgio Maggiore

Alla fine di dicembre del 1520 il tempo era pessimo, “aque alte et pioggia granda“, ma poi la pioggia cessò e cominciò a nevicare proprio la notte prima del giorno di Natale, “Tutta questa note neve et neve et ozi neve ancora qual era tutta la terra sepelida“.

Nonostante il tempaccio, il serenissimo Leonardo Loredan non volle fossero sospese le rituali feste di Natale; alla mattina, con tutto il Collegio e le alte magistrature assistette alla messa a San Marco, nel pomeriggio alle funzioni e poi nella penombra del tramonto tempestoso cominciò la processione verso l’isola di San Giorgio dove, per antica tradizione il doge si recava ai vesperi in onore di Santo Stefano, il cui corpo era stato colà trasportato fin dal 1109, dogando Ordelafo Falier. Era questa una festa solenne, unica nel suo genere, poiché il doge in questa sola occasione usciva di notte dal Palazzo Ducale e per la magnificenza dello spettacolo illuminato da torce, fanali e fuochi il popolo occorreva in gran folla acclamando alla signoria.

La neve cadeva a falde bianche e lievi, i peatoni ducali che aspettavano al Molo ricchi di seta, di velluti, di tappeti erano tutti ricoperti di neve, “et la neve nel so silenzio veniva zoso senza requiem come un gran velo fisso“. Dalla chiesa di San Marco, uscendo per la porta maggiore, squillarono le trombe di argento e suonarono i pifferi mentre lenta e solenne si snodava la processione sotto la neve: scudieri, chierici, canonici, il cappellano ducale, il doge, gli ambasciatori e una lunga schiera di patrizi e magistrati in vesti di velluto di damasco, di drappo d’oro. Al Molo, montavano su barche illuminate con fanali e candele; a dritta e a sinistra, lungo il bacino tra San Giorgio e San Marco erano piantati su pali i famosi “ludri“, torce di corda incatramata, che mandavano un vivace splendore riflesso nell’acqua.

Giunto il corteo nell’isola, passando sotto un ricco padiglione, entrava in chiesa ricevuto dal priore del convento di San Giorgio, abate mitrato. Anche moltissime patrizie scendevano dalle loro gondole, vestite di nero con lungo strascico, ornate il collo e il petto di preziosi gioielli, velato il volto di finissimo merletto nero. E la funzione religiosa principiava tra il suono delle campane e gli spari dei Bombardieri dalmati raccolti sul piazzale della chiesa intervenuti anche essi per maggior decoro della festa.

La neve continuava a fioccare, il corteo, finita la cerimonia, si dispose per il ritorno rinnovando agli spettatori che stavano sul Molo una scena singolare curiosa, abbagliante; i fiocchi di neve s’illuminavano cadendo al riflesso delle innumerevoli candele, torce, lumiere mentre squillavano le trombe e rumorosamente applaudiva il popolo festante.

Il doge con il Collegio entrò in Palazzo Ducale per la porta della Carta e sotto l’ampio porticato Foscari, al riparo della neve, stavano alcune monache del convento di San Lorenzo e di San Zaccaria, quelle con cestelle di confetti, pignocate e frutta secche, queste con i tradizionali “doicento calissoni (ciambelle) indorati“. Anche i frati di San Giorgio mandavano in quella sera ciambelle e focacce ma vi aggiungevano quattro anfore dorate con l’arme del principe, “do piene de moscatello et do piene de vin di marcha“. Altri regali di derrate e di vini venivano dal Patriarca di Castello, dal comune di Chioggia e da quello di Muggia nell’Istria, dai proprietari di valle, dai pescatori di San Nicolò, dai beccai, e il tutto serviva per il grande pranzo che dava il doge nel giorno di Santo Stefano, e “la neve cadete fin la sera dopo Nadal si fo neve grandissima“. (1)

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 25 dicembre 1927

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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