Gli schiavi a Venezia

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Jacopo Robusti detto il Tintoretto. San Marco libera uno schiavo. Gallerie dell'Accademia Venezia

Gli schiavi a Venezia

Per le condizioni della città non esistevano a Venezia servitù della gleba, ma vi era una blanda servitù che considerava però gli schiavi, non come uomini, ma come cose da cedersi, da comperarsi, da sfruttarsi. Il carattere mite ed affettuoso dei veneziani rendeva meno gravi che altrove le loro condizioni, ma erano per sempre tenuti, come oggetto, con nessun diritto, ma con molti doveri e le pene inflitte, a che commetteva prepotenze o delitti contro gli schiavi, si riferivano sempre al pieno arbitrio del padrone, ma mai ad essi.

Nel 1401 il nobile messer Valerio Zen ha di notte commercio con Lucia tartara serva di ser Luca Michel. Lo si condanna, per un anno, nei pozzi, e se il padrone non vorrà riprender la schiava, lo Zen debba dargli cento ducati d’oro e la serva resti sua; se la rivorrà gliene paghi solo cinquanta.

Maggiori erano le pene contro gli schiavi “rei” di amore colle loro compagne di sventura; poiché, dice la Quarantia Criminale, la multa viene pagata dai padroni ed essi non ne soffrono; siano adunque la prima volta bollati e frustati da San Marco a Rialto, e stiano sei mesi nei pozzi; recidivi, oltre equale pena, siano per sempre banditi, il che equivaleva alla libertà, ma i padroni allora, toccati nel loro interesse, protestarono ed il bando fu tolto.

Nel 1369 le sanzioni penali descrivono parecchie baruffe di schiavi, che sotto la loggia di Rialto fanno rumore, si lanciano pietre e si bastonano di santa ragione. I capi sestieri, i signori di notte, gli ufficiali alla pace possono farli mettere in catene e bastonarli, ma se rei di delitti, la punizione è crudele.

Messer Domenico Gaffaro, vescovo di Capodistria, è quasi scannato nel sonno, e derubato da Giovanni suo schiavo. La sentenza, 27 novembre 1370, suona: Sia tradotto per acqua fino a Santa Croce e un banditore gridi di continuo il suo delitto, poi per terra fino alla casa del vescovo, dove gli si tagli la destra, e con essa appesa al collo lo si conduca a Rialto, e là gli si strappi carne in quattro siti, dalle guance e dalle braccia; si trascini poi fino a San Marco, e gli si tolga carne dalle cosce e dal petto, in quattro luoghi; poi si ammazzi, si squarti, ed i quarti si appendano a due forche in mezzo alle due colonne fino a domenica, indi alle solite forche dove rimangono di continuo.

Ma molto spesso la pietà illumina talvolta le tenebre in cui erano avvolti i poveri schiavi: sier Marco Morosini fu Gerolamo nel 1442 lascia che Maria sua schiava sia libera e franca “et si li lasso la casa che sta a San Moisè“, prete Bartolomeo Pin di Santa Maria Formosa, regala nel 1388 a sua figlia adottiva che affrancò fin dalla nascita trecento ducati d’oro per dote; e Guglielmo de Vincenzi, notaio ducale, affranca nel 1439 Fresina sua schiava e le dona lingerie ed argenti perché “fo sempre serva liale, honesta e sobria et amò sempre la casa“.

La Serenissima vegliava anche perché su quella povera parte di umanità non si spingesse il diritto fino a speculare sul vizio; Francesco Torta, banditore, compra una schiava e la “impegna” per un ducato alla settimana in un postribolo a San Cassano. L’Avogaria se ne immischia, e Torta è condannato il settembre 1359 a due mesi nei pozzi, trenta lire di multa ed escluso per sempre da ogni pubblico ufficio. (1)

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 23 febbraio 1924.

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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