Le “acque alte” storiche a Venezia

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Acqua alta in Campo San Giacomo di Rialto. Sestiere di San Polo

Le “acque alte” storiche a Venezia

Le prime acque alte a Venezia si trovano ricordate nel codice Trevisano dell’anno 586 in cui il cronista chiama quell’alta marea “ingens diluvium” (grande diluvio) e soggiunse che le isole furono allargate per qualche giorno, tanto che la città pareva diventata una palude e si diceva: “non in terra neque in aqua sumus nos viventes“, non viviamo né in terra né in acqua.

In quei primi tempi le alte maree erano frequenti, però i malanni furono sempre lievi: qualche bottega di merci danneggiata, avarie a molte barche, alcuni orti rovinati, pochi pozzi guastati. Ma nell’agosto del 1143 come racconta la cronaca Erizzo, il mare si spinse nelle lagune allagando “tutta la terra et non fo mai vezudo (veduto) tal inondation de aque“. L’acqua cacciata da un grande vento di scirocco “qual parea di fuogo“, invase tutte le isole dell’estuario, allagò le vigne del Lido maggiore, quelle dei Tre Porti e delle Vignole, gli orti di Malamocco e Chioggia e raggiunse in cinque ore l’altezza di quattro passi sull’altezza ordinaria della comune marea. Le strade e i ponti della città, quasi tutti in legno e piatti, erano scomparsi sotto l’acqua; i magazzini, i fondaci, e botteghe inondate; quasi un milione di ducati d’oro, circa dodici milioni di lire nostre (6,315 ca. milioni di euro attuali), furono perduti per le merci, le spezie e i raccolti rovinati.

Tre operai della Basilica di San Marco verso il tramonto, quando l’acqua era nella sua maggiore altezza, vollero per bravata recarsi alle loro case non sapendo nuotare. Presero per le Mercerie; all’angolo di San Giuliano uno dei tre voltò verso “il piciolo ponte di li Armeni“, oggi Ponte dei Ferali, e sparì nel canale; gli altri due con l’acqua fino alle spalle proseguirono per il Ponte dei Baretteri, ma uno solo giunse mezzo morto al Ponte di Rialto, allora di legno e si accasciò sul piazzale.

Tutti i pozzi della città furono rovinati dall’acqua salsa e il Senato il giorno dopo, su proposta di sier Lorenzo Malipiero, elesse di urgenza i tre Savi sopra le acque, magistratura che subito ricevette l’incarico di provvedere la città di acqua dolce. E difatti partirono nello stesso giorno per Lizza Fusina numerose piatte per caricare l’acqua del Brenta che venne poi dispensata gratuitamente nelle varie contrade della città, mentre si procedeva al sollecito prosciugamento dei pozzi.

Questa, dicono le cronache, fu la più grande inondazione avvenuta: assai più grande di quella del 19 dicembre 1606 in cui andarono distrutte quasi tutte le valli, e più grande di quella del 1727, vigilia di Natale, in cui l’acqua raggiunse “li scalini dell’altar maggiore della chiesa di Sant’Antonino alla Bragola“. Lo scirocco soffiò per tre giorni continui, il flusso impediva il riflusso così da tamponare il corso dei fiumi verso la laguna, il Piave, il Sile; ci furono vittime umane e perirono molti animali. (1)

In Salizada dei Spechieri ai Gesuiti verso le Fondamente Nove, una targa di marmo ricorda l’acqua alta del 15 gennaio 1867 (+153 cm), la targa si trova a livello stradale perché qualche decennio fa è stato innalzata la quota di calpestio del pavimento.

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 21 settembre 1927.

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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