La giustizia a Venezia; le esecuzioni capitali

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Esecuzioni tra le colonne. Manoscritto antico.

La giustizia a Venezia; le esecuzioni capitali

Anticamente, prima del mille, le esecuzioni capitali a Venezia, si eseguivano sulle rive dell’isola dei Cipressi appartenente alla famiglia Memo, oggi San Giorgio Maggiore; più tardi invece ebbero luogo nella contrada di San Giovanni in Bragora, in quel tratto di terreno dove attualmente si stende la Calle de la Morte che formava allora, per la mancanza di case, una vasta zona di terreno vacuo.

Nel 1172 per opera di Nicolò Barattieri, costruttore si dice del primo Ponte di Rialto in legno, vennero erette le due colossali colonne portate dall’Oriente, e per questa sua fatica egli aveva ottenuto il privilegio di tenere pubblico gioco di azzardo tra i due superbi fusti monoliti di granito orientale alzati sul Molo, in Piazzetta San Marco. Ma il gioco di azzardo, “over di barato“, era severamente proibito dalle leggi veneziane e il Senato, dopo di avere concesso al Barattieri il suo privilegio, corse ai ripari e decretò che tra le due colonne si eseguissero delle esecuzioni onde distogliere il popolo dall’approfittare della data licenza.

Le pene di morte erano varie: per decapitazione e per impiccagione, per “descopadura“, ossia a colpi di mazza sulla testa, o per strozzamento nel carcere, per annegamento nel Canale Orfano o anche, ma assai di rado, per “il fuogo dil rogo“. Non era però tassativamente stabilito che le condanne sulla forca o sul palco fossero sempre eseguite fra le due colonne poiché qualche volta sul decreto di condanna c’era l’intimitazione che la pena della forca venisse fatta sul luogo del delitto “sub pena furcarum in loco delecti“.

Difatti nei Registri dei Giustiziati della Serenissima si legge che nel 1593, il 3 luglio, un tale Tomaso da Chioggialavorante in Cecca di anni trentado fo facto dal Consiglio dei Dieci impiccare in faccia della Porta della Cecca per avere in quella commesso il suo delitto“. Egli era un abile ladro, scoperto dal proto della Zecca certo Stefano di Prospero e denunciato aveva confessato la sua colpa, punita dal Consiglio con la morte.

Molto spesso quando il condannato si strozzava nel carcere, ed era per lo più un patrizio o un ragguardevole cittadino reo di delitto politico, veniva nella notte appeso alla forca tra le due colonne in segno d’infamia, come accadde il 27 marzo del 1498, ed è Marin Sanudo nei suoi Diari che racconta l’orribile fatto.

Et alla sera alle ore tre di notte acadete quello sciverò. Il marti matina adì 28 marzo, andando io iusta il solito a san Marco tutti diseva: Questa notte è sta fatto justicia. Et cussì andato su la piaza di santo Marco, in mezo le do colone era apichato misser Antonio di Landi, secretario nostro, di età de anni zercha setanta, teniva i segreti, trazeva (traduceva) le zifre et andava in pregadi. Tutta la terra (città) meravigliata perché non si sapeva nulla, et era apichado in manege a comodo e di notte“. Messer Antonio di Landi aveva venduto i segreti della Repubblica al duca di Mantova, scoperto fu arrestato, processato e condannato nel massimo segreto, ma il Sanudo che lo vide alla sera toglier dalla forca afferma “che la corda era ligata al collo con do gropi senza sacola (nodo scorsoio) et la vesta imbratada da terra e la schiena, et pareva come corpo stato morto strassinà per terra: tutti hanno opinion fusse strangolato in presson et era vero“.

Quando si trattava di delitti enormi per ferocia e scelleratezza, prima della morte si usava ricorrere a tormenti “espiatori“; i colpevoli, legati ad un palo sopra una “peata” erano condotti lungo il Canal Grande fino al Ponte di Santa Croce e ad ogni traghetto venivano tormentati con tenaglie infuocate gridando il “comandadore” il delitto commesso; a Santa Croce si tagliava ai rei una mano (quella valida) e con quella legata al collo erano, a coda di cavallo trascinati fino in Piazza dove finalmente, quasi morti, s’impiccavano. Dopo qualche ora il cadavere tolto dalla forca, estremo oltraggio, veniva squartato e i quarti, ad esempio solenne, appesi alle solite forche che stavano innalzate sulle vie d’acqua che conducevano a Padova (Fusina), a Mestre (San Giuliano), a Chioggia e a Sant’Andrea del Lido.

L’ultimo assassino che ebbe dalla Serenissima la condanna a morte, con l’aggiunta dei tormenti anteriori, fu un tale Antonio Galimberti, nativo di Crema, solito far l’orefice, di anni trenta, che nel 1788, 21 agosto, per ordine del Consiglio dei Dieci venne tanagliato, troncata una mano, impiccato, squartato per aver proditoriamente ucciso in cortile del Palazzo Ducale, il nobile signor Conte Nicolò Vimercati Sanseverino di Crema e anche dopo morto ferito ancora e offeso con fargli acqua addosso.

I giustiziati si seppellivano in antico nel cimitero di San Zaccaria, poi a San Francesco della Vigna e nel 1618 a San Giovanni e Paolo e in quest’ultimo cimitero il primo sepolto fu un francese, Nicolò Renauld, detto volgarmente Rinaldi, “strozzato in prigione, indi appeso con un piede alla forca quale ribelle e traditore“.

Caduta la Repubblica il campo di giustizia fu trasportato a San Francesco della Vigna, più tardi a Santa Marta: il primo fucilato a San Francesco fu Antonio Mangarini nel 23 giugno 1797 condannato dalla Municipalità provvisoria come capo di congiura, chi inaugurò il campo di Santa Marta fu il soldato austriaco Leonardo Sleiza, fucilato il 12 maggio 1842 per aver ucciso un suo fratello, vicino alla chiesa dei Frari. (1)

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 31 agosto 1933.

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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