La famiglia e il palazzo Salamon, in contrada di San Pietro, nel Sestiere di Castello
Nella parrocchia di San Pietro di Castello, attigua alla Calle di Ruga si apre la Calle Salamon che ricorda l’antichissima e nobile famiglia venuta da Salerno a Torcello e stabilitasi a Venezia nei primi anni del secolo ottavo.
Apparteneva alle ventiquattro famiglie più antiche della città, e si chiamava allora Centranico, prese parte attiva alle lotte intestine che desolarono nel suo principio la nascente Repubblica, ma ebbe sempre per la nuova patria un grande amore e parteggiò costantemente nelle file di coloro che volevano la sua gloria contro le mene degli Orseolo che tentavano impadronirsi di un potere assoluto.
Eletto doge nel 1026 Domenico Centranico, il primo ad assumere il nome di Salamon, dopo quattro anni di regno, da una sollevazione popolare, in cui gli Orseolo avevano avuto la parte maggiore, venne deposto e, com’era costume del tempo, rasatogli il capo, fu cacciato in esilio ed egli, avvilito ma rassegnato, trovò rifugio nell’Abbazia di Sant’Ilario, fondata nel secolo nono dai Partecipazio sulle rive della vecchia Brenta, nel territorio di Lizza Fusina.
Nel 1247 un Giacomo Salamon entrò nell’ordine di San Domenico e fu destinato nel convento di San Giovanni e Paolo, vulgo San Zanipolo: uomo di vasta cultura, predicatore eminente, di grandi virtù e di altissima fede, ebbe presto tutte le simpatie del popolo e dei patrizi specialmente nella peste del 1284 in cui si estinsero le nobili famiglie dei Bellapiera, del Bonfier, dei Brancorso e dei Peralin di San Felice. Padre Giacomo tutti soccorreva, tutti confortava ed essendo corsa fama che per le sue preghiere la contrada di San Zanipolo fosse immune dal morbo, nel campo e nelle adiacenze del convento domenicano si alzarono numerosissime tende e baracche, ricovero dei molti fuggiti dalle altre contrade. Fu miracolo, fu combinazione, dice la cronaca Erizzo, fatto è che a San Zanipolo nessun colpito venne dalla pestilenza, e quando padre Salamon moriva nel 1314, fu informata la Curia di Roma che era morto un santo e la Curia settant’anni più tardi lo eleggeva nel numero dei beati.
La famiglia Salamon che dopo qualche secolo conservava ancora vivo il ricordo della fine infelice del suo antenato, il doge Domenico Centranico, non volle mai più occuparsi di politica, e fu questa quasi una tradizione, una eredità morale, rispettata sempre dai discendenti; tradizione conosciuta anche dal Maggior Consiglio, che pur stimando i Salamon mai li proposero per un alto ufficio. Furono della Quarantie e qualcuno fu del senato, ma non mai passarono questa cerchia di ordinarie elezioni solite a farsi con tutti i patrizi che avevano censo e cultura.
Nel 1763 la nostra famiglia ebbe un immenso dolore: Elisabetta Salamon giovane bellissima, prediletta figlia di sier Marco, nel recarsi a Padova, con un ricchissimo corteo di dame e cavalieri per contrar matrimonio in chiesa del Santo col cavaliere di Stola d’oro sier Nicolò Lazzara, moriva improvvisamente, e il vivace e lieto corteo che andava allegramente verso la città Antoniana, ritornò a Venezia triste e mesto con la salma della sfortunata patrizia. Elisabetta fu sepolta nella chiesa dei Carmini con nobile epitaffio dettato da sier Nicolò, oggi scomparso nei vari restauri.
Sier Filippo Salamon, aderendo alla proposta di tale Giacomina Scorpioni innalzò, tutta a sue spese nel 1315, una chiesa nell’estremo angolo della città verso Fusina, dedicandola a Santa Marta e accanto fece costruire un convento per monache Benedettine venute dal vecchio convento di San Lorenzo nell’Isola di Ammiana, dove infieriva la malaria prodotta dall’impaludamento della circostante laguna. La famiglia Salamon sulla chiesa e sul convento di Santa Marta aveva “il Giuspadronato” e perciò quando dalle monache veniva eletta la madre badessa ne era informata subito la famiglia che con solenne cerimonia procedeva alla investitura.
Ogni anno alla viglia di Santa Marta, che cadeva il 29 luglio, il convento mandava ai Salamon, quale riconoscimento di quel padronato, un cestello di vimini dorati riempito di bellissime rose, appositamente coltivate nell’orto conventuale, e il gentile regalo era recato da quattro tra le più giovani monache che presentandolo al capo della famiglia, avevano parole di gratitudine e questi contraccambiava il dono con una elemosina di dieci ducati d’oro. L’ultimo dei Salamon a cui fu presentato nel 1788 il regalo delle monache di Santa Marta fu sier Domenico, da qualche tempo ammalato, il quale ricevendolo con triste sorriso avvertiva: “Sorelle, un altro anno spargetele le rose sul mio sepolcro“. Dopo tre mesi moriva e con lui si estinse la famiglia, e fu sepolto nella chiesa di Santa Marta. (1)
(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 25 giugno 1933.
Dall’alto in basso, da sinistra a destra: Palazzo Salamon sul Rio de Noal, Calle Ruga, stemma della famiglia Salamon sull’omonimo palazzo, Calle Salamon, Calle Salamon, Chiesa di Santa Marta.
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