Il popolo di Mestre massacrato, il paese in fiamme, nel 1513 durante la Guerra conto la Lega di Cambrai

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Torre dell'Orologio. Mestre

Il popolo di Mestre massacrato, il paese in fiamme, nel 1513 durante la Guerra conto la Lega di Cambrai

Nel 1513 un esercito costituito quasi tutto da spagnoli e comandato dal Cardona viceré di Napoli, dopo aver tentato inutilmente d’impadronirsi di Padova, difesa dal capitano Alviano, si riversò sulla campagna fino alla laguna. Bruciata Lizza Fusina, il 30 settembre di rivolsero verso Mestre.

A Mestre non vi era presidio di sorta, ma fu fatta una difesa disperata; il castello fu preso d’assalto, i difensori perirono tutti, ed il nemico, padrone ormai del paese, ed inferocito per la inattesa resistenza, consumò un orrendo eccidio, senza risparmiare né vecchi, né le donne, né i fanciulli.

Il viceré, stabilita la sede del comando nell’osteria della Corona, vicino alla chiesa di San Lorenzo, giurò che all’indomani avrebbe fatto alla Serenissima un terribile scherzo, e al solo pensarci rideva e lo raccontò anche ai suoi ufficiali che lo dissero cosa gloriosa e degna di canto.

Infatti all’indomani, in sul far dell’alba, un gran rumore di carri fu udito verso quella parte di Mestre che conduce alla laguna, e poco dopo il mezzogiorno tre cannoni stavano sul terrapieno di San Giuliano, con le bocche dirette verso Venezia. Lo scherzo del Cardona, grande di Spagna e viceré di Napoli, era quello di bombardare Venezia: partì un colpo e il proiettile cadde in laguna, un secondo, un terzo, un quinto ebbero la stessa sorte, il settimo invece toccò appena il convento di San Secondo, poi silenzio perfetto … lo scherzo non era riuscito! I Veneziani allo spettacolo inatteso uscirono sulle fondamente di Cannaregio e, senza proprio averne voglia, dovettero ridere alla spagnolesca intrapresa.

Ma il Cardona se amava le allegre spacconate, adorava anche le crudeltà inumane, e nella notte del due di ottobre diede l’ordine di partire, ma prima volle che il fuoco facesse strage di Mestre, e fu così che le truppe spagnole, con grande rumore di trombe e tamburi, muovendo verso Castelfranco, abbandonarono il paese che era ormai tutto in fiamma. L’incendio durò quasi due giorni, e nella notte il cielo sembrava dipinto di rosso, mentre la gente sulle sponde estreme di San Giobbe faceva ressa per vedere le vampe.

Marin Sanudo nei suoi Diari racconta: “E’ restà in piedi solum le chixie et la casa di la pieve di San Lorenzo, l’osteria di la Corona et la casa di Sanudi nostri zermani“. (1)

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 12 febbraio 1924

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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