Lo “Stretto di Galipoli”, a Santa Maria Gloriosa dei Frari, nel Sestiere di San Polo

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Stretto di Galipoli, a Santa Maria Gloriosa dei Frari. Sestiere di San Polo

Lo “Stretto di Galipoli”, a Santa Maria Gloriosa dei Frari, nel Sestiere di San Polo

Negli antichi catasti si trova “la Calle stretta di Galipoli” (ora denominata Calle de Ca’ Lipoli), una breve calle nella contrada di Santa Maria Gloriosa dei Frari, alla quale si accede per uno stretto passaggio tra due angoli di case, volgarmente chiamato “lo stretto di Galipoli“.

Qualche vecchia cronaca, dice il Gallicciolli nelle sue “Memorie venete“, afferma che quel nome deriva dalla corruzione di “Ca’ Lipoli” conosciutissima famiglia cittadinesca abitante nella calle e molto in voga verso la fine del Quattrocento per le sue beneficenze fatte specialmente durante la peste del 1484 in cui morirono in otto mesi circa trentamila persone. Ma qualche altro cronista, forse con più ragione, attribuisce il nome ad uno scherzo del popolo veneziano che, in quei secoli di gran commercio con l’Oriente, udendo parlare molto spesso dello Stretto di Gallipoli, denominò così burlescamente quel piccolo passaggio dal quale poi anche la calle venne battezzata.

Corruzione di un nome di famiglia o scherzo popolare, il nome attraverso i secoli giunse fino a noi e lo stretto e la Calle di Galipoli figurano in parecchie cronache; nel 1457 nella calle venne assassinato il patrizio Antonio Badoer della contrada di San Giacomo dall’Orio per questione di donne, due mesi dopo nella stessa calle all’assassino tale Nicolò Tolonigi veniva tagliata la mano destra e poi condotto in Piazza per Canal Grande “fo descopato in mezo le do Colone di santo Marco“; nel mese di giugno del 1506 “si abbrugiò una ruga di case de sier Marco Barbarigo a san Pantalon et il fuoco andò fin in calle streta dil Galipoli abbrugiando tre case et cussì in Città veneta in questo anno have gran danni de incendi“.

Ma in mezzo a queste tristi vicende la nostra calle ebbe l’alto onore di ospitare il più grande pittore del Cinquecento, nato a Pieve di Cadore chi dice verso il 1477 e chi dice nei primi mesi del 1481.

Tiziano Vecellio in questa calle, nella sua casa che sorgeva accanto a quella della famiglia Lipoli, casa demolita nel 1802 e la cui area venne ridotta ad ortaglia, visse quasi vent’anni dal 1510 al 1530 circa e qui ebbe l’incarico dai frati minori di Santa Maria Gloriosa dei Frari di dipingere la grande pala dell’altare maggiore, la celebre “Assunta“. L’ordinazione gli venne data da frate Germano, prore del convento, nel 1516 e la magnifica tavola era completata dopo due anni, ma sebbene i frati non fossero troppo contenti della superba opera, pure il 20 marzo 1518, festa di San Bernardino, il popolo fu ammesso ad ammirarla, e patrizi e popolo approvarono e inneggiarono al grande capolavoro tizianesco.

In questa calle avvenne nel 1725 il matrimonio di Tiziano con la buona Cecilia, una bella alpigiana che gli faceva da governante, figlia “dil quondam ser Alò de maistro Iacomo barbier de Peravol di Cadore“, la quale gli aveva già dato due figli: Pomponio e Orazio che il sommo pittore voleva legittimare.

In quel tempo Cecilia era ammalata e Tiziano rivoltosi al fratello Francesco gli disse: “Io voria sposar Cecilia, nostra donna de casa, per respecto che ho dei fioli maschi con lei a ciò li siano legittimi“. E l’onesto fratello, più anziano di lui, rispondeva contento: “Mi son contento et mi meraviglio che sie stato tanto a farlo“. Così avvenne il matrimonio e dopo due anni nasceva la bella Lavinia ritratta dal padre in parecchi suoi quadri.

Nel 1530 moriva Cecilia e tanto si addolorò il Vecellio che volle perfino cambiare abitazione e prese allora in affitto dal patrizio Leonardo Molin una casa tutta nuova ai Birriin la contrà di san Cantiano con un terren vacuo” che ridusse ad orto e in cui sorgeva il famoso albero dalle foglie rotonde, ritratto nel suo capolavoro “san Pietro martire” perito nell’incendio della Cappella del Rosario nella chiesa di San Giovanni e Paolo, avvenuto nella notte del 16 agosto 1867.

Lo “stretto di Galipoli” nei primi anni del Settecento si voleva allargare per comodo di alcuni abitanti della calle, ma si oppose Rizzardo Balbi di San Pantalon dicendo “che l’era ben mantener che ricordava li tempi boni de la Serenissima e il natural scherzoso del nostro popolo“. E così lo stretto rimase. (1)

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 28 agosto 1930

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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