Le otto sorelle Falier da Sant’Aponal e Bona da Santa Fosca, due casi di iniqua giustizia

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2004
Campiello dei Sansoni. Sestiere di San Polo

Le otto sorelle Falier da Sant’Aponal e Bona da Santa Fosca, due casi di iniqua giustizia

Nel principio del Quattrocento, quando la civiltà nuova della Rinascenza non aveva ancora dato una maggiore libertà alla famiglia, l’autorità del capo di questa trovava una severa tutelatrice nella Repubblica veneziana. Lo provano due sentenze della Quaratia criminale degli anni 1406 e 1407, trasmesse fino a noi nel registro quattordici di quel tribunale, conservate oggi nel nostro archivio di Stato.

In Campiello Sansoni a Sant’Aponal abitava nel 1406 un tale Pietro Falier che teneva bottega di drapperia a San Giuliano, da parecchio tempo vedovo con otto figlie, la più grande delle quali aveva allora circa ventitré anni, la seconda venti e le altre “per ordine successivo“.

La moglie già da nove anni era morta dando alla luce l’ultima figlia e da quell’istante Pietro Falier di carattere impetuoso e brutale, messa la piccina a balia, aveva rinchiuso le altre sette fanciulle in una stanza munita d’inferriata, per non aver seccature con quella squadra di piccole femmine in balia di se stesse. Egli partiva di casa alla mattina presto per aprire la bottega e non ritornava che alla sera tardi, lasciando alle figlie un po’ di pane “et acqua cum aceto mista” e dando loro per la giornata una buona partita di lavoro come cucire panni, filare e lavare.

Col tempo il carattere brutale del padre si era di più in più accresciuto diminuendo l’affetto verso quelle sventurate, esse stavano sempre rinchiuse giorno e notte, proibita loro qualunque pratica religiosa, il pane immangiabile, il lavoro sfibrante e al ritorno del genitore erano rimproveri, grida e busse.

I vicini di casa impietositi della triste sorte di quelle disgraziate, ricorsero all’avogadore sier Pietro Zancani e questo, d’accordo con i colleghi Francesco Valier e Bartolomeo Donato, mandò i fanti delle “razon vechie” a togliere le otto ragazze da quella casa infame con l’ordine di affidarle a buone famiglie fino a che lo Stato avesse provvisto alla loro sorte.

Pietro Falier venne chiamato all’Avogaria ed egli si difese dicendo che i tempi erano tristi e per proteggere le sue otto figlie da qualsiasi “amor falso et slialo (sleale)” non aveva trovato che quel mezzo: richiuderle, farle lavorare e mangiar poco per mortificare la carne. Contro l’inumano genitore non si prese nessun provvedimento, non ebbe nessuna pena, nessuna condanna e le sorelle furono affidate, dopo qualche giorno, alle monache del convento di San Lorenzo.

Ma la legge troppo buona col capo della famiglia, per un falso senso di autorità, era invece rigidamente severo con la donna che osava ribellarsi all’autorità maritale. Tale Bona, moglie di Cecco da Firenze da alcuni anni stabilitosi a Venezia nella contrada di Santa Fosca, venne colpita nel 1407 da una condanna materialmente e moralmente straziante.

Cecco era bisbetico e stravagante, specie dopo avere bevuto qualche bicchiere di vino e la moglie, formosa e robusta massaia, cercava di correggerlo bastonandolo di santa ragione. Un giorno, accecata dall’ira, lo ferì con una piccola forbice e alle alte grida di Cecco corsero i birri e arrestarono la donna.

La Quarantia criminale le fece il processo e la condanna fu oltremodo severa. “Bollata sul petto con ferro rovente, dice la sentenza, et poi da santa Croce per Rioalto fino a santo Marcum et inde a Castellum frustata et digando (gridando) la culpa sua“. E così venne fatto e, dopo la bollatura d’infamia, la povera donna nel lungo tragitto, discinta fino alla cinta, ricevette “le scuriade” e tra il dolore e la vergogna dovette poi starsene a letto febbricitante quasi due mesi.

In quei due mesi tutte le comari della contrada di Santa Fosca andarono “a farghe compagnia“, solidali con lei contro i mariti bisbetici, stravaganti e bevitori. (1)

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 12 dicembre 1928.

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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