La Festa del giorno dell’Ascensione e Sposalizio del Mare

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Francesco Guardi, Il Doge sul Bucintoro si dirige verso San Nicolò di Lido, 1766, Musée du Louvre, Parigi

La Festa del giorno dell’Ascensione e Sposalizio del Mare

In quei tempi infelicissimi per la bella Italia, in cui sanguinose guerre la straziavano e desolavano, i soli veneti isolani godevano della maggior tranquillità, ed erano pacifici navigatori e commercianti; ma ben presto furono essi pure costretti a divenire soldati.

Una popolazione barbara e feroce, dotata dalla natura di una straordinaria forza, era uscita dagli agghiacciati climi della Scizia, e dopo essersi trasferita sulle sponde del mar Nero, si era divisa in due porzioni, l’una delle quali, valicato il Danubio, venne nel sesto secolo a fermarsi nell’lllirio.

Indi acquistando sempre nuovo terreno si inoltrò fino alle spiagge dell’Adriatico, e vi eresse Narenta città, che comunicò poscia il proprio nome a tutta la nazione. Fortificatisi i Narentani in quel sito, pigliarono sempre maggior animo: penetrarono a mano armata nell’Istria, costruirono vascelli, e si diedero ad esercitare la pirateria per tutto il golfo. Non tardarono i nostri a provarne i tristi effetti, e furono obbligati ad armare legni da guerra, onde proteggere il proprio commercio e la navigazione. Ebbero allora principio quelle zuffe così frequenti e feroci, e quella guerra sì lunga ed ostinata, che durò per più secoli. Alla fine poi le città situate sulle coste dell’Istria e della Dalmazia, stanche dalle continue incursioni di quei barbari, e prive di una forza navale sufficiente a distruggerli, si volsero di comune con senso ad impetrare l’aiuto della possente Repubblica di Venezia, promettendo di dedicarsi a lei, qualora venissero liberate dalle vessazioni di quei  pirati. Spediti a tale oggetto alcuni oratori a Venezia, venne l’invito di quei popoli accolto con quel giubilo, che può ispirare una favorevole occasione di prender vendetta di un antico nemico, e di ampliare al tempo stesso il proprio dominio. Furono dunque promessi i richiesti soccorsi; e  senza indugio posta in ordine una forte squadra, e il Doge Pietro Orseolo II volle esserne il condottiere. Salpò dal porto il dì dell’Ascensione l’anno 997 e a vele gonfie si recò in Istria, ove  venne incontrato colle più vive acclamazioni, e salutato da tutti gli abitanti per loro vero liberatore. Ricevette egli il giuramento di fedeltà dai nuovi sudditi, lietissimi di sottomettersi ad una ben augurata Repubblica. Lo stesso avvenne in Dalmazia. Giunto il Doge a Zara, trovò il popolo, che affollato lo stava aspettando, e tutti i cittadini con trasporto di gioia offrirono sé stessi, le città, le pubbliche e le private fortune al Veneto Dominio.

Non meno dell’ingresso del Doge fu pomposa, rispetto a quei tempi e a quei luoghi, la cerimonia con la quale egli accolse gli oratori di tutte le altre città Dalmate ansiose di presentargli i contrassegni della spontanea loro dedizione. Diritto di conquista, che sei tu mai al paragone dei voti unanimi di un intero popolo, che di proprio moto si spoglia della sua sovranità per deporla nelle mani di un altro popolo? Un tale esempio fu seguito dalle Isole adiacenti a quella costiera, tranne però due che se ne mostrarono ritrose, cioè Curzola, un dì chiamata Corcira nera, e Liesina, altre volte detta Faro. Riuscendo queste un ricovero troppo vantaggioso ai Narentani, non doveva il Doge soffrire che volessero sottrarsi al comune destino. Usò nondimeno in prima le esortazioni e gl’inviti; venne poscia alle minacce, ma nulla giovando, fu costretto necessariamente di ricorrere alla forza delle armi.

Curzola siccome debole e mal difesa, ben presto si arrese; ma non così Liesina. Per vincere la sua rocca posta sopra rupi scoscese, cinta da mura inaccessibili, e inoltre guardata da un copioso presidio di Narentini, non ci voleva meno di un formale assalta, Orseolo tosto fece i suoi approcci in buon ordine, e dispose ogni cosa da prode capitano. Dato il segnale, e soldati e marinai fanno a gara per immortalarsi in valore. L’assalto divien generale, furioso, tremendo. Tutto cede, tutto fugge dinanzi ai nostri gloriosi stendardi, e la città è ridotta ad implorare misericordia. Rovesciato questo antemurale dei barbari, Orseolo non tardò a portare la strage nel seno del loro proprio paese. Borghi, città, castella tutto fu atterrato, distrutto. I miseri Narentani, ridotti alla disperazione, chiedono la pace ad ogni costo. Il Doge la accordò, ma esigendo condizioni sì gravose per i vinti, che fu tolto a questi per sempre il poter di risorgere. In fatti da allora in poi non si udì più parlare dei loro ladronecci, e il mare restò libero ai veneziani.

Terminata così la più bella impresa, che dopo la nascita della Repubblica si fosse mai eseguita, Orseolo ritornò con lo spirito più tranquillo a visitare quello spazio di circa 350 miglia, che aveva prima trascorso colla rapidità di un guerriero, che vola a combattere. In nessuno luogo pose Preside o guarnigione; non violò in alcun conto l’autonomia, né alterò le pratiche ed i costumi degli abitanti, e si compiacque da allora in poi di riguardarli come soci ed alleati, non come vinti o sudditi.

Bella politica in vero, e molto accorta degli avi nostri, i quali ben conoscevano, che non solo i popoli colla forza sottomessi, ma quelli ancora, che spontanei si dedicano a lungo andare non senza qualche ribrezzo portano il giogo, onde è per avvezzarli insensibilmente, conviene da  prima fare loro credere tutto al contrario, lusingare le loro passioni, e conservare intatti, il più che si può, financo i nomi delle cose. Orseolo conchiuse un trattato, in cui si stabilì, che ogni città avesse a pagare un annuo tributo alla Repubblica; che in caso di guerra dovesse ciascuna somministrare un certo numero di marinai, di soldati e di vascelli, e che i mercadanti veneziani entrati nei porti e sulle terre dell’Istria e della Dalmazia, avessero a godere piena sicurezza, ed ogni maggior vantaggio per l’esito delle loro merci; siccome la Repubblica per sua parte promise eguali privilegi a tutti gl’Istriani e Dalmati, che per ragione di commercio avessero approdato a Venezia, ed alle loro Patrie ampia protezione e difesa contro ogni loro nemico.

Avendo così poste le cose nel miglior ordine possibile, Orseolo ricondusse a Venezia la valorosa sua flotta e convocata un’Assemblea generale, quivi con tutta semplicità fece il ragguaglio della sua spedizione, a cui seguirono le grida di applauso, di ammirazione, di riconoscenza. Non vi aveva chi non serbasse in mente la memoria dei danni sofferti, le tramate insidie, le prese dei vascelli e delle loro merci, la schiavitù e persino la morte dei loro congiunti ed amici; e lo scorgersi salvi per sempre da tali pericoli, era per tutti un motivo di straordinaria esultanza. Né meno consolante fu l’acquisto di tutta la costa marittima, che si estende dall’ Istria sino ai confini  della Dalmazia, compresevi le Isole adiacenti, talché il popolo con voto unanime stabilì, che il Doge Orseolo e i suoi successori assumessero per ricordare, negli atti pubblici, il titolo di Doge di Venezia e della Dalmazia.

Si volle inoltre, che la memoria di una impresa tanto segnalata, che aveva dato ai Veneziani il dominio del Golfo, come in epoche anteriori lo avevano avuto e Pelasgi, ed Etruschi, e Adriesi, si  rinnovasse ogni anno con una solenne visita, che il Doge farebbe al mare.

Non senza avvedimento fu scelto a tal oggetto il giorno dell’Ascensione giacché in tale giorno era uscita dal porto la flotta, che si era di tanta gloria coperta. Da qual momento in poi il Doge nel giorno dell’Ascensione montato sopra un vascello distinto, e accompagnato dal Vescovo, dai suoi Consiglieri, dai principali membri della nazione, anzi quasi dalla nazione intera, usciva dal porto di Lido, e praticava certe cerimonie adattate a quei tempi di semplicità e di moderazione. Ecco l’origine vera, o l’epoca incontrastabile delia famosa visita, che il Doge faceva al mare. Lasciamo pure alla fervida fantasia straniera l’attribuire la sua istituzione al fine politico di tener con essa gli  animi dei cittadini distratti dalle interne discordie, che potevano a quella stagione dell’anno più vive emergere, per esser tempo di mutazioni di cariche, e di potere insieme, in mezzo all’ ebbrezza del comune giubilo strappare meglio i segreti del popolo, spiarne la condotta, conoscerne i cuori. Chi  mai udì dire, che solo in maggio si cambiassero le cariche? Quale fra i detrattori del nome Veneto immaginò mai più bizzarro impasto di assurde calunnie e di ridicolaggini?

Per lo spazio di 180 anni si celebrò, a quel modo che abbiamo detto, la Festa. Al terminar di questo periodo, nei diciassette ultimi anni, l’impero cristiano venne conturbato dallo scandalo di uno scisma, che nacque dall’ elezione di due Pontefici, i quali egualmente pretendevano al Triregno. Alessandro III era stato eletto Papa dai voti unanimi del Conclave; ma l’Imperatore Federico Barbarossa per l’odio che gli portava, fece proclamarne un altro da due Cardinali. Indi con suo decreto bandì Alessandro dall’ Italia, e scagliò minacele contro chiunque avesse osato prendere le sue parti. Allora fu che si videro e Vescovi, e Prelati, e persino il Sommo Pontefice, venire a Venezia per rifuggirvisi. Quando sì seppe il di lui arrivo, gli furono resi tutti gli onori, ed ognuno spiegò la più viva brama di vederlo rimesso alla venerazione del mondo cristiano. Il Governo di Venezia superiore ad ogni minaccia, spedì all’imperatore deputati ed oratori per procurar di calmare il suo odio contro Alessandro. Furono questi sì fortunati, che ottennero di farlo riconoscere per vero Pontefice, e di conciliare la pace fra l’impero e la chiesa. Venne stabilito un incontro a Venezia dell’Imperatore col Papa; la qual cosa riempì di giubilo i nostri buoni isolani.

Federico si mise subito in viaggio: arrivato a Chioggia, trovò sei galere veneziane destinate a condurlo in città. Anche prima d’ imbarcarsi ricevette l’assoluzione delle censure da tre Cardinali spediti dal Papa.

Questi lo attese nella chiesa di San Marco vestito pontificalmente, sedendo in mezzo ai suoi cardinali ai suoi Prelati, ed in faccia a tutto il popolo di Venezia. Allorché Federico giunse in chiesa andò umilmente a prostrarglisi ai piedi, ed ei tosto lo alzò, lo abbracciò, e gli diede l’apostolica benedizione.

Questo è ciò che intorno a tale incontro ci offre di più certo la primitiva Storia. Vi ebbero poi degli scrittori, che coi loro racconti favolosi porsero soggetto a non men favolose pitture. Quindi è che tanto nella sala dell’attuale pubblica Biblioteca di Venezia, quanto nel palazzo della famiglia Rolandi di Siena, da cui era uscito Papa Alessandro, ed anche nel Vaticano di Roma, venne rappresentata una gran battaglia navale fra i Veneziani e Federico; ed inoltre alcune bizzarre ed esagerate cerimonie della di lui riconciliazione col Pontefice. La verità è, che in tale occasione né battaglie, né vittorie ebbero luogo. Né Federico aveva forze marittime atte a resistere alle nostre, né il di lui figlio Ottone era allora in età di poter comandare. Com’ è dunque probabile, che i veneziani, fatto avendo prigione questo giovine principe, si valessero di lui per rappacificare col Papa l’Imperatore suo padre? In mezzo a tanti e sì mal fondati racconti si tenga solo per fermo, che il buon esito dell’accennata mediazione, e lo splendido trattamento fatto dalla Repubblica all’Imperatore ed al Papa, moltissimo accrebbe in Europa la di lei riputazione. Non arrechi quindi stupore, se Alessandro pensò ricompensare alla sua foggia i veneziani, ricolmandoli d’indulgenze, e se essi conoscendosi benemeriti della Santa Sede, si indussero a pregarlo di voler loro concedere l’investitura dell’Adriatico, di cui però da quasi due secoli potevano chiamarsi  signori. Tale richiesta, che parrebbe oggidì ridicola, nulla aveva di strano in quei tempi, quando l’autorità del Vicario di Cristo era sì rispettata, che i principi cristiani non credevano abbastanza legittimi i loro diritti, e le loro pretensioni, né bene assicurato sul capo il diadema senza l’approvazione pontificia. E in quanto al Papa, nulla di più caro per esso, quanto l’aver occasione di esercitare un simile atto della sua possanza. E siccome poi il simbolo di ogni investitura era l’anello, così egli uno ne diede al Doge di Venezia, con cui sposasse il mare, e desiderò, che a quella prima solennità della visita quest’altra fosse aggiunta dell’investitura, sotto l’immagine di sponsali. Egli è per questo, che allora quando il vascello Ducale era giunto alla bocca del porto, si volgeva al mare colla poppa, e il Vescovo benediceva l’anello nuziale, e lo presentava al Doge; indi versava un gran vaso di acqua santa nel luogo dove doveva cadere l’anello, e il Doge gettandovelo pronunziava in latino queste parole: Mare, noi ti sposiamo in segno del nostro vero e perpetuo dominio.

Simile costumanza venne da parecchi riguardata non solo come bizzarra, ma come ridicola. Pure il filosofo osservatore deve considerarla come saggia, provvida e umana, E chi non sa quanto questa idea di dominio sia propria a risvegliare in ogni uomo sublimi sentimenti e straordinario entusiasmo? Per renderla poi più sensibile, e in certo modo più palpabile anche alle anime rozze e volgari, qual migliore spediente si poteva immaginare, quanto un’augusta cerimonia, il cui simbolo richiamasse in mente quella del matrimonio? Per essa si ricordava, che il vincolo tra Venezia e l’Adriatico era non meno stretto e indissolubile di quel santo vincolo, elle insieme congiunge due sposi, e che siccome tra due sposi devono perpetuamente avvicendarsi i servizi, le difese, gli aiuti, così in questa coppia allegorica doveva regnar sempre un generoso scambio di uffizi. Erra il mare sorgente di sicurezza, di opulenza, di gloria alla nostra città, e se in essa diveniva sacro il dovere d’impiegar tutte le sue cure, e gli sforzi maggiori per assicurarsi tanti benefici, proteggendo la libertà delle sue acque, d’altra parte era giusto, che ad esso tributasse solennemente i sentimenti di pubblica riconoscenza. Ma quel versare l’acqua santa, e quel benedire le volubili onde non era egli un atto di religiosa invocazione in pro di quelli, che dovevano esporvisi, ed un bel presagio di prosperità per lo Stato? O non si potrebbe anche prendere per un segno di pietosa riconoscenza verso i nostri sventurati concittadini, che dentro quelle onde giacciono sommersi? Volgendo infatti il pensiero sopra tutti i disastri della navigazione, e sopra il numero degl’infelici ingoiati dal mare, senza godere dell’onore del sepolcro, senza l’accompagnamento di preci ed esequie, senza il fumo di odorosi incensi che consoli le loro ombre, senza che la mano dell’amicizia scolpir possa i loro nomi amati sopra di quella mobile e profonda tomba, non è fuor di ragione, che ottenere dovessero questo tenero addio dalla patria, e ricevere questo Asperges divoto in quel loro comune vastissimo cimitero.

Ma per ritornare a questo giorno sì rinomato, esso anche in antico fu detto la Festa della Sensa, cioè del l’Ascensione. Concorrevano a Venezia in folla i forestieri sino dal tempo delle Crociate, essendo quella la stagione, in cui i pellegrini usavano fare il passaggio di Terra Santa. Quando poi  la navigazione ed il commercio si dilatarono, e lo Stato andò crescendo in potenza, allora il marittimo spettacolo prese l’aspetto di un solenne trionfo, quale certo non si sarebbe potuto vedere altrove, e la cui fama si sparse per tutto il mondo. Il giorno dell’Ascensione era veramente quello  in cui il Doge si presentava al pubblico in tutta la pompa, e come capo supremo della più ricca e florida tra le Repubbliche. Accompagnato dalla Signoria, dal Senato, e pressoché da  tutto il Maggior Consiglio, andava ogni anno a rinnovare il possesso di quel Golfo, che le Venete vittorie avevano sottomesso allo Stato. Gli ambasciatori delle primarie corti d’Europa  assistevano pur essi a questa singolar cerimonia, e seduti presso sua Serenità parevano in qualche modo sanzionare quest’ atto di antico possesso, confermare i diritti della Repubblica, e applaudire alla gloria dei suoi fasti.

Anche il naviglio destinato per il Doge venne costrutto e portato ad un grado di ricchezza e di magnificenza sorprendente. Si chiamava Bucintoro, nome che alcuni credono essere una corruzione di Ducentotum, perché allora quando nel 1311 dal Senato fu dato l’ordine di fabbricarlo, si disse nella legge: quod fabricetur navilium ducentorum hominum, cioè della portata di ducento uomini. Altri fanno derivar questo nome da Bicentauro, per essere grande il doppio di quella nave detta Centauro, di cui parla Virgilio nella descrizione dei giuochi funebri celebrati da Enea per onorare la morte del padre.

Ma poco monta infine fantasticare sul nome. Alla gran macchina fu a bella posta dato una forma straordinaria fra i vascelli. La distribuzione dell’interno corrispondeva egregiamente all’uso, e la sontuosità degli ornamenti era del pari degna del glorioso suo oggetto. Lunga 100 piedi, e larga 21, in due piani si distingueva questa reggia galleggiante sull’ acque. Noli’ inferiore stavano i remiganti; il superiore poi coperto di velluto cremisino ornato di frange galloni e fiocchi d’oro, formava un salone di tutta la lunghezza del naviglio. Il salone si innalzava verso la poppa, in capo alla quale si trovava un apposito finestrino, da cui il Principe gettava l’anello in mare. Questo pertugio stava dietro alla ricchissima sedia del Doge collocata sopra due gradini. La poppa rappresentava una Vittoria navale coi suoi trofei. Due bambini sostenevano una conchiglia, che formava il baldacchino Ducale. Si dall’una parte che dall’altra del seggio, vi erano due figure rappresentanti la Prudenza e la Forza, volendosi intender con ciò, che la mente ed il braccio sono i veri sostegni del principato. Vicino ai gradini erano i sedili pur essi magnificamente apparecchiati ad uso del Patriarca, degli Ambasciatori, della Signoria e dei Governatori dell’arsenale. Per indicar poi che mediante la coltura delle scienze e delle arti, un popolo potente si acquista maggior considerazione, ed accresce la sua felicità, la parte di questa sala che serviva come di tribuna al trono, era coperta di bassirilievi dorati, fra i quali si distingueva Apollo in mezzo alle Muse, di cui il Bucintoro poteva a ragione essere riguardato come il tempio. Sulle pareti di tutto il restante si vedevano, pure in bassorilievo le Virtù, e quelle Arti che servono alla costruzione dei vascelli, non che quelle, che ricreano gli spinti da gravi cure occupati, come sono la pesca, la caccia e simili; il tutto distribuito con squisita eleganza resa più cospicua dalla somma profusione d’oro. Il numeroso corteggio del Doge era in questo caso accresciuto dai forestieri più illustri, che ambivano l’onore di essere del seguito del Principe. Essi misti ai Magistrati occupavano le due lati della sala, ora stando seduti sopra le panche, ora godendo la vista dello spettacolo affacciati a qualunque delle 48 finestre, onde erano traforati i fianchi del naviglio. Sulla prua la statua colossale della Giustizia, Dea tutelare di ogni ben regolato governo, attraeva a sé gli sguardi dei sudditi della Repubblica, che ne facevano giulivi l’applicazione. In fine riguardando il complesso del Bucintoro, potremo dire francamente, che giammai forse la pubblica Maestà si scelse un albergo tanto proprio di lei quanto questo; né per la via dei sensi essa in stillò mai negli animi tanta venerazione di sé, quanta allorché si accoglieva tra l’oro e la pompa di sì portentoso naviglio.

Oltre li rimorchi che lo traevano, aveva 168 remiganti molto opportuni ad agevolare il maestoso suo corso. Non erano essi né galeotti, ne marinai, né gondolieri; ma bensì gli unici Arsenalotti, cioè quei membri, che componevano la famiglia prediletta della Repubblica, che con sì soave e dolce  nome erano chiamati, e con i quali egli stessi si chiamavano con una specie di vanità derivante da veracissimo attaccamento. Essi ambirono ed ottennero il privilegio di condurre il Doge a tali  nozze, ed abbandonati in questa sola occasione i loro giornalieri stranieri, non sdegnavano, seduti sulle panche di impugnare a quattro il remo, godendosi a gara dei loro inusitati sforzi, e dei loro anniversari sudori.

Seguivano a lento corso il Bucintoro numerose Galee, non solo per aumentar la pompa dello spettacolo, ma più ancora per richiamare alla memoria dei veri patrioti, che segnatamente  su simili bastimenti gli Avi nostri, mercé delle più ardite navigazioni, e delle imprese le più difficili, avevano portato la Patria all’apice della gloria, mentre le potenze marittime, che sono grandi oggidì, radevano appena con batelli le coste dei fiumi.

Certe grosse barche dorate del Dominio seguivano dappresso il Bucintoro. Esse in questo giorno, ed anche in qualche altro solenne, servivano a comodo del Patriarca e degli Ambasciatori. Aumentavano il corteggio lance, canots, caicchi spettanti agli Ufficiali di mare; e tutti questi legni erano sfarzosamente apparecchiati.

Il Doge dei Nicolotti, cioè degli abitatori della contrada di San Nicolò, aveva esso pure una barca particolare per sé. Questo capo di una classe utilissima di quei pescatori, che abbiamo veduto figurare come rimorchianti, godeva molti privilegi, fra i quali aveva l’onore di seguire il Bucintoro

Anche i capi principali dell’arte Vetraia e delle Conterìe, dalle quali arti si traeva un grandissimo vantaggio nel commercio, avevano il privilegio in tal giorno di accompagnare il Doge. Seduti in una peota ornata a loro spese, avevano l’ambizione di farsi osservare ed ammirare per il buon  gusto é per la molta magnificenza. Ed in vero vi era sempre motivo d’applaudire vivamente all’industria di questi ingegnosi ed utilissimi abitatori dell’isola di Murano. Ciò poi che animava nel modo più brillante la Festa, era l’infinita quantità di barchette di ogni fatta, che quasi tutte ricoprivano la laguna da San Marco sino al Lido, dalle quali venivano spesso scelti concerti musicali. Non solamente la nobiltà e gli opulenti cittadini concorrevano a gara nelle loro barche e peote ma persino le diverse classi del popolo artigiano ornavano a festa dei battelli con  festoni di fiori, e sopra tutto con corone di alloro, pianta cara agli Dei ed agli Eroi, e di cui il popolo veneto impiegava sempre le foglie immortali come contrassegno sicuro dell’universale allegrezza. Le grida di gioia di questo felice popolo si mesceva insieme cogli spari dell’artiglieria dei vascelli sì pubblici, che mercantili ancorati, che facevano ala all’illustre comitiva, e le rendevano il militar saluto. In mezzo al lampo, al rimbombo guerriero, in mezzo ai vortici del fumo, e sopra quei flutti vivamente agitati, le ninfe dell’Adriatico passavano sì intrepide, che si sarebbero potute prendere per Amazzoni, se la loro agile gondoletta, l’eleganza del loro vestito e la voluttuosa lor giacitura non le avessero fatte riconoscere per le legittime figlie della bella Dea nata da quelle onde medesime, ch’esse sì mollemente solcavano.

Così accompagnato il Doge rientrava suo palazzo, dove tratteneva a pranzo tutti i Magistrati che si erano trovati nel Bucintoro.

Altri spettacoli vi erano in questo giorno; essi troveranno il loro luogo. Non volli qui parlare che dello sposalizio del Doge col mare; di quella Festa sì celebre, che per l’applauso popolare e il gran concorso di gente sembrava ogni anno improvvisa e novella, benché per tanti secoli ripetuta.

Essa non era altrimenti la Festa di pochi fastosi ricchi, ma di tutti indistintamente i cittadini, che vi concorrevano spontanei, e mossi non meno da particolare zelo, che da spirito di nazionale orgoglio; e le loro acclamazioni non erano prezzolate e bugiarde, ma figlie di quel sentimento patriottico, che nasce dalla personale sicurezza e dalla gloria dello Stato.(1)

(1) GIUSTINA RENIER MICHIEL. Origine delle Feste veneziane. (MILANO 1829. Presso gli editori degli annali universali delle scienze e dell’industria.)

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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