Famiglia Bembo
Bembo. Scrive il conte Jacopo Zabarella, nel suo Trasca Peto, che la famiglia Bembo ebbe origine dalla gente romana Cornelia Scipia, dulla quale, dice, usciti li Cornelii Sabatini di Bologna, facendone stipite Marco Cornelio Sabatino, vissuto nel 500; da cui venne un altro Marco Cornelio, padre di tre figli, appellati Giovanni, Cornelio ed Ermes, dal primo dei quali derivarono li Sabatini ed i Zabarella di Bologna, di Napoli e di Padova, e li Mocenigo di Venezia. Ma Cornelio, il secondo, fuggendo dalle invasioni dei barbari, afferma lo scrittore medesimo, trasmigrato con la famiglia sua, nel 700, nelle venete lagune, e per la sua molta bontà, essendo qui soprannominato Ben Bon, questo appellativo, convertito in Bembo, rimase a cognome dei suoi discendenti. Ma tale racconto, che prende faccia di novella, è contraddetto in parte da altri scrittori, i quali, sebbene convengano nel derivare i Bembo da Bologna, tra cui Guasparre Bombaci, nella lettera che egli scrisse al doge Giovanni Da Pesaro, il Malfatti ed il Frescot tacciono di quella origine favolosa, ed anzi, l’ultimo, assegna l’emigrazione in queste contrade dei Bembo alla metà del V secolo, dicendola fuggita da Bologna, minata allora da Attila. Questa opinione del Frescot si avvalora dal vedere la famiglia Bembo annoverata dai cronacisti fra le ventiquattro case, nelle quali fu primamente stabilito il corpo della nobiltà patrizia, ed una delle dodici, che, nel 697, votarono alla elezione del primo doge; sicché più anticamente sostennero i Bembo il tribunato nelle isole. Molti uomini illustri produsse poi questa casa in ogni facoltà, e vanta anche due celesti comprensori, vale a dire, il beato Leone w la beata Illuminata; quello vescovo di Modone nella Morea, morto a Venezia nella prima metà del secolo XII, e questa, monaca francescana, defunta in Bologna nel 1483.
Innalzano per arma i Bembo uno scudo, che in campo azzurro reca uno scaglione d’oro, accompagnato da tre rose dello stesso metallo.
Il doge Giovanni Bembo nacque nel 1543, da Agostino q. Benedetto, e da Chiara Dal Basso q. Donado Bergamasco drappier. Fino dagli anni più teneri si applicò all’arte guerresca, sicché, imbarcato prima col titolo di nobile in armata, poi di sopraccomito, e quindi di governatore di galea, in cotale carico intervenne alla famoso battaglia delle Curzolari, comandando la galea intitolata la Donna, e combattette sì valorosamente, che, quantunque ferito di freccia e di palla d’artiglieria, assoggettò, incalzando la mischia, tre galee turche, per modo che nella segnalata vittoria, al dire del suo elogista Andrea Morosini, parve, a comune giudizio, che non ne avesse egli la minor parte. Sortito da quella orribile pugna e da altre posteriori, per segno di grato animo, offerse in voto al santuario di Loreto il modello in argento di una galea. L’anno appresso intervenne alla presa di Sopotò e di Malgariti, ed eletto poscia capitano in Golfo, poi provveditore d’armata, profligò e disperse i corsari, fortificò i litorali, migliorò ed accrebbe con ottime istituzioni la disciplina marittima. Eletto nel 1597 generale in mare contro gli Uscocchi, il Bembo si recò in Dalmazia, stringendo quei pirati di assedio, e ne spense buon numero, per modo, che domati, furono costretti nascondersi nelle spelonche loro natie. Ritornato in patria, fu spedito provveditore generale di Corfù, e quindi il 14 agosto 1601 elevato alla dignità di procuratore di San Marco de ultra, in luogo del defunto Alvise Giustiniani. L’anno stesso, come capitano generale dell’Istria, della Dalmazia ed Albania, sconfisse di nuovo gli Uscocchi. Insorte poscia le differenze col pontefice Paolo V, fu nuovamente, il Bembo, eletto capitano generale in mare, ricevette dalle mani stesse del doge Leonardo Donato il gonfalone, scortato con molta pompa da tulio il senato alla propria galea, e salpando con scelta squadra si congiunse alla veneta armata, la quale ben equipaggiata di numero, e di nerbo di ciurme e di soldati, egli col governo sostenne, accrescendo in singolar modo la pubblica dignità ed il decoro (Morosini, Elogio). Seguita la pace poco poi, ripatriò; ma nello stesso anno fu riassunto alla stessa carica, per opporsi alle macchinazioni degli Spagnoli. Ritornato da quella spedizione, e passato a vita migliore il doge Memmo, fu sublimato il Bembo alla suprema dignità della patria, quantunque, come narra il Morosini citato, egli ne fosse alieno. Moriva poi, come dicemmo, nell’età d’anni 75, senza prole. Era il Bembo di bello aspetto, robusto nel corpo e nello spirito, che in molta matura età faceva rispondere così vivaci e generosi tratti, che non vi era cosa, che pur anche non ardisse egli, non intraprendesse, non eseguisse in vantaggio della Repubblica. Il suo amore per la patria fu segnalatissimo, narrando il Morosini, che mentre era malato, anzi presso all’estremo passaggio, desiderava perire di altro genere di morte, quello cioè sui campi di Marte a pro della patria stessa, chiamando ingrata la camera, pesanti le coltrici, che invidiavano ad esso felicità di tal genere, onde più volentieri le dorale pareti nelle galee di flutti asperse, il tranquillo letto nell’instabile vascello avrebbe cangiato, ed in vece di rimanere oppresso da un interno contrasto di naturali umori, stato lo sarebbe da un esterno azzuffamento col nemico (Elogio citato). Oltre il ritratto accennato, si vede il Bembo espresso in ginocchio, al quale un angelo nostro Cristo trasfigurato fra un coro d’angeli, con altre simboliche figure, tra cui la Terra e Nettuno, che ognuno di loro tiene due bastoni nelle mani, allusivi ai generalati di terra e di mare dal Bembo sostenuti. Tale dipinto, opera di Domenico Tintoretto, che stava nell’atrio della sala del Consiglio maggiore, è adesso conservato nei depositori del Palazzo ducale, in attesa di nuova collocazione. (1)
(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI
Dall’alto in basso, da sinistra a destra: Corte del Teatro, 4604 (San Marco) – Campo de la Guerra, 502 (San Marco) – Calle del Fumo, 5152 (Cannaregio) – Rio Terà dei Nomboli, 2707 (San Polo).
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