I festini e i balli dei veneziani
Specialmente nel secolo XVI grande era il lusso che i Veneziani più ricchi spiegavano nei festini e nei balli. Le stanze ricoperte d’arazzi e di specchi, le vesti di seta e di velluto d’ogni colore, gli ornamenti d’oro e di gemme, la beltà dei volti femminili, presentavano, al chiarore delle torce, e delle lumiere, uno spettacolo fantastico e delizioso.
Per lo più, precedevano i banchetti rallegrati da scelta musica, nei quali si imbandivano fagiani, pavoni, selvaggine, uccelli, pesci squisiti, erbe e frutta d’ogni sorte, marzapani, confetti, vini Italiani, di Grecia, e d’altre regioni. Brillavano le mense per il vasellame d’oro e d’argento, e per candelabri, e trionfi, ripieni di dolci, del medesimo metallo.
Vi si scorgevano molte figure di zucchero, che, dopo la festa si dispensavano in regalo alle dame, e talvolta erano di zucchero anche i piatti, le tovaglie, le salviette, i coltelli, e le forchette, arnesi tutti così bene imitati che Enrico III di Francia, invitato ad una refezione in Arsenale, non s’accorgeva dell’artificio, se non quando, volendo spiegare la salvietta, essa rompevasi, e cadeva a briccioli in terra. Fu d’uopo che si cercasse di moderare tanto scialacquo con replicati decreti, i quali ritrovavano ben poca ubbidienza.
Ai banchetti tenevano dietro i balli, un esatto ragguaglio dei quali ci dà il libro intitolato il Ballerino, pubblicato per la prima volta in Venezia nel 1581 da Fabrizio Caroso da Sermonetta. In quel libro vi sono alcuni balli dedicati a gentildonne Veneziane. Imperocchè, oltre l’Alba Novella, e l’Alta Regina dedicati a Bianca Cappello, già divenuta granduchessa di Toscana, ritroviamo il Ballo del Fiore, dedicato a Laura Moro Contarini, e quello del Piantone a Graziosa Bembo.
Per solito poi ogni festa terminava col ballo del Cappello, che ci piace descrivere con la scorta del Rossi, nella sua opera Leggi ed i Costumi dei Veneziani. In questo ballo la donna si alzava dalla sedia per invitare l’uomo a danzare. Allora l’invitato, in segno di adesione, si levava il berretto, e lo posava sul capo della donna, che poco appresso se lo toglieva, lo baciava, e lo riponeva sul capo del compagno, per poi tornare a porselo sul proprio, in modo vezzoso.
Allora incominciavano le danze. La bravura della donna consisteva nello stancare il ballerino, e quando questi mostrava il desiderio di sedere per riprendere fiato, essa continuava a girare affatto sola, cercando qualche altro, il che soleva destare in molti dolci speranze. Ma la scaltra li faceva penare, fingendo, col furbesco muovere delle pupille, e con seducenti smancerie, di voler dare la preferenza ora a questo, ed ora a quello. Guidata dal capriccio, talora si presentava a chi sonnacchioso, o pensando a tutt’altro, sedeva, e lo faceva forzatamente danzare, nè lo lasciava finchè egli, fra le beffe, non si fosse dato per vinto.
Si deve confessare che questo ballo era alquanto licenzioso per gli atti, e le movenze troppo libere delle donne, le quali, col berretto in capo, rappresentavano la parte delle emancipate, quasi avessero avuto piena balia di fare ciò che volevano degli uomini sberrettati. E perciò venne più volte proibito, quantunque si legga nel Sanudo che nel 1518 vi presero parte nel palazzo Corner due cardinali, in occasione d’una festa mascherata datasi in onore del cardinale Cybo.
Festini alquanto più modesti erano quelli, che in tempi meno lontani si tenevano in una sala presa a pigione, col permesso dei magistrati, da qualche impresario. Risplendeva sull’uscio, come segnale, una lanterna inghirlandata d’erbe e di fiori. Tutti potevano entrare con maschera, o senza, e ballare al suono di pochi strumenti, e talvolta d’un solo violino, o d’una sola spinetta.
Dopo alcuni giri, l’impresario andava a riscuotere dai danzatori un piccolo tributo in danaro, ed aveva cura perché in una stanza vicina chi voleva mangiare o bere, potesse soddisfare il proprio desiderio. Da principio, l’impresa dei festini veniva per solito assunta dai domestici degli esteri ambasciatori, che, ritrovando la cosa poco decente, presero in seguito il partito di proibirla, dietro l’iniziativa dell’ambasciatore di Francia. Al descritto divertimento accorrevano non di rado anche i patrizi, specialmente se davano la caccia a qualche mascheretta, che s’intanava in quei recinti.
Anche i popolani ballavano nelle loro case, o nelle pubbliche strade, massime la così detta Furlana, di cui così parla l’illustratore dei Disegni del Grevembroch: “Non v’era danza più gradita quanto quella tradotta dal Friuli, nella quale le donne erano sì svelte ed agili che l’uomo, quantunque robusto e giovane, appena poteva secondarle. Le giornate festive, per essere disoccupate dal lavoro, a meraviglia accontavano alle femmine popolari, le quali in luoghi poco distanti dalle loro case e senza strumenti musicali, ma solo dal maneggio d’alcuni cembali prendevano lena, stimandosi le più scelte del sestiere di Castello per possedere di stancare il compagno“. (1)
(1) Giuseppe Tassini. Feste, spettacoli, divertimenti e piaceri degli antichi veneziani. Venezia. Stabilimento Tipografico Fontana. 1891
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