La Guerra della Lega di Cambrai (1508-1516). VII parte

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Mappa storica del Territorio di Bergamo

La Guerra della Lega di Cambrai (1508-1516). VII parte

Necessità dei possedimenti di terraferma

Il possedimento della terraferma era divenuto ai Veneziani indispensabile: perduta la preminenza sul mare, in sempre maggior pericolo le terre loro nel Levante, capitali immensi impiegati in beni stabili, le sussistenze della città ritirate in gran parte dalle vicine provincie soggette, rendevano necessario il riaverle a qualunque patto si fosse. Perciò fu volta principalmente ogni cura a rappacificare l’imperatore, non risparmiandosi le parole di sommissione e le offerte di doni e di censi, contentandosi perfino la Repubblica di riaver quelle terre a titolo di feudo, come già ai tempi di Sigismondo.

Nuovi tentativi di pace con l’Imperatore

Fino dal 4 febbraio era stato a lui destinato il segretano Pietro Stella e si erano poi accettate le offerte di mediazione di Luca de Rinaldi e di Costantino Arenili; indi era partito per Trento Antonio Giustiniano, ma non aveva potuto per anche ottenere il salvacondotto per ridursi alla sua presenza. Ora gli si raccomandava mettesse tutto in opera per parlare o far parlare a S. M. e ricordandogli l’antica amicizia e devozione, gli facesse presente essere sempre stato desiderio della Repubblica di conservarsi a lui unitissima ed in perpetua confederazione; a ciò essere più che mai opportuno il presente momento della discesa del re di Francia con l’intenzione non solo d’insignorirsi d’Italia ma di aspirare pur anche all’impero, e far papa il cardinale di Roano suo prediletto; venisse perciò e prestamente per soccorrere e sovvenire alla povera Italia, gli offriva la Repubblica tutte le sue forze e dello Stato di essa, potrebbe egli disporne come padre e protettore; gli pagherebbe duecentomila fiorini del Reno perché venisse immediate con quel numero di genti che gli paresse necessario. Incaricava pure il Giustiniano di offrirgli ove occorresse, anche la restituzione delle terre occupategli l’anno avanti, cioè Trieste, Pordenone, e perfino Gorizia, ma solo in caso di necessitasse poi, nonostante tutte queste proposizioni non riuscisse, si proponevano cinquanta mila fiorini l’anno per anni dieci oltre li sopra detti duecento mila; se l’imperatore non potesse venir subito in persona mandasse in luogo suo un prode capitano; se toccasse del monitorio del papa, rispondesse essere la Repubblica pronta ad acquietare il sommo Pontefice per ogni via e modo possibile, rimettendo in Sua Maestà ogni e qualunque differenza.

Nell’impossibilità, in cui bene si vedeva la Repubblica di poter far fronte a tanti nemici ad un tempo, pensava non risparmiar mezzo alcuno ad assicurarsi le spalle dalla parte di Germania e di Romagna, mentre avrebbe voltate tutte le sue forze contro i Francesi, pel quale scopo ordinava in pari tempo grandi provvedimenti per terra e per mare, mandando perfino a chiedere dal Sangiacco di Bosnia da tre a quattro mila cavalli da condurre ai propri stipendi, a condizione però che fossero cristiani, e altrettanti dall’Ungheria.

Progressi dei francesi e perdita delle città di Lombardia

Intanto le cose veneziane andavano sempre più a precipizio. Scrivevano i provveditori del gran disordine che regnava nel campo, e che malgrado ai loro sforzi non riuscivano a mettere insieme conveniente esercito, mentre i nemici ogni dì più avanzavano. Pizzighettone alla chiamata resisteva, rispondendo il suo podestà, Lorenzo Foscarini volersi difendere; a Bergamo invece i cittadini, impadronitisi di una porta, sciolta ogni obbedienza, mandavano a capitolare e cacciavano il rettore veneziano; lo stesso faceva poco dopo Brescia; la Valcamonica si ribellava e il castellano fuggiva a Venezia; il 1.o di giugno solo Pizzighettone, Cremona ed Asola si tenevano ancora per la Repubblica in Lombardia. Né meglio andavano le cose nel Veneto, nella Romagna, nella Puglia: era la Sensa (Ascensione), scriveva il Sanudo, ma tutti piangevano; non venne quasi nessun forestiero, si vedeva vuota la piazza …

Provvedimenti per la sicurezza di Venezia

Si raccoglievano quotidianamente i Consigli e volgendo il pensiero ad assicurare per ogni evento Venezia, si ordinavano grandi tratte di frumento, si ricorreva di nuovo alla costruzione di mulini sui sandoni come nei primi tempi della Repubblica, si bandivano tutte le persone sospette e i vagabondi, e si deputavano venti nobili e venti cittadini da eleggersi dai caposestieri a guardare, dandosi il cambio, i passi di Chioggia, la via di Piove di Sacco, Lizzafusina, Marghera e le bocche del Sile. Vi fu chi propose di mandare il doge in persona a Verona, per rinfrancare con la sua presenza le truppe, dandogli anche due consiglieri al fianco e lo seguirebbero cinquecento gentiluomini a proprie spese: il doge, vecchio com’era, volentieri si profferiva e ciò venendo riferito ai figli suoi, essi repubblicanamente rispondevano: il doge farà quel che vorrà questa terra. Tuttavia non ne fu parlato altro, e solo fu fatta una legge dal Consiglio dei Dieci che imponeva grave pena a chi rifiutasse un uffizio qualunque a cui venisse eletto.

Se la Repubblica sciogliesse i sudditi dal giuramento di fedeltà

Di una deliberazione di rinunziare spontaneamente alla difesa e sciogliere le città dal giuramento, non solo non mi accadde di trovar documento, ma anzi la serie dei fatti viene a smentirla, sebbene tanto ne parlassero gli storici, lodandola alcuni come supremo tratto di avvedutezza politica, altri invece biasimandola come prova di estrema debolezza. Nulla di tutto ciò: la Repubblica mentre tentava per via di maneggi diplomatici di pacificare i suoi nemici e di staccarne alcuni dalla lega, resisteva loro in pari tempo quanto poteva colle armi e cedeva solo a palmo a palmo il terreno. E tanto era lungi dal liberare spontaneamente le città dal suo dominio, che propostosi il 18 maggio di scrivere in Romagna o quei provveditori di ritirarsi e alzar le insegne del papa, il partito non fu vinto, e se poi il 22 il senato incaricava i cardinali Grimani e Corner di offrire al papa la restituzione delle quattro terre contestale, di licenziare i Bentivogli e di eseguire la sua volontà nel conferire episcopati e benefici, ben si vede che la cosa è al tutto diversa e che la restituzione aveva a farsi per volere espresso del governo, non già per abbandono delle popolazioni.

Verona, Vicenza, Padova, Roveredo, Treviso, Friuli

Intanto queste calando da Trento, venivano, sebben tardi, anch’esse a far loro preda nelle terre d’Italia, e la Repubblica, nella speranza di guadagnarsi l’animo dell’imperatore, gli faceva cedere Verona e Vicenza, che diceva voler da lui riconoscere. Entrarono gli imperiali in Vicenza e vi commisero enormi fatti; le truppe veneziane si ritiravano lentamente verso Padova. I cittadini avendo pregato non entrassero, il Senato mostrò aderire alle loro brame, li esortò a stare di buon animo che gli avrebbe difesi e aver già mandato danari a questo scopo, ma intanto faceva saper segretamente ai provveditori che d’intelligenza secreta con i rettori facessero entrare la truppa per la via del castello o della saracinesca col minore strepito possibile ed osservando rigorosissima disciplina. Ma quando il dì seguente i cittadini entrati in sospetto gridavano volersi dare ai Cesarei, i rettori, per non venir a guerra civile e aver a combattere i propri sudditi, permisero si alzassero le bandiere imperiali, e il Senato scriveva ai provveditori che si tenessero fermi negli alloggiamenti intorno alla città fino a nuovi ordini, il che facemo perché partendovi del tutto o resolvendovi saria dar morena a tutti i altri lochi nostri rimasti di far in una hora voluntaria deditione. Tuttavia quel primo fermento di Padova si calmò, e gli abitanti adescati anche dalle promesse di levar il dazio della macina, di poter per l’avvenire mandare in ogni castello i propri giusdicenti, invece dei veneziani patrizi, e che sarebbe in Padova un collegio di appellazione, si tennero ancora quieti sotto il veneziano dominio.

Ma avvicinatosi poi un Leonardo da Trissino o Dressano col titolo di commissario imperiale, i nobili specialmente che bramavano gratificarsi a Cesare, diedero la città. Il 4 giugno si scriveva al castellano di Roveredodi cedere la Rocca all’ imperatore. Riva già erasi data al vescovo di Trento. A Treviso, ricevuta l’intimazione degl’imperiali, gli abitanti si radunavano in consiglio tra loro senza invitarvi il podestà ed il capitano, ai quali scriveva tosto il Senato, facessero di stornare ogni risoluzione men che favore vuole alla Repubblica, rappresentando le debolissime forze del Trissino, la protezione che loro darebbe il governo, In larghezza dei premi e dei privilegi con cui premierebbe la loro fedeltà. Cosi in questa indecisione giungeva intanto il giorno 10 di giugno in cui essendo festa, una parte dei cittadini voleva si alzasse come al solito la bandiera di San Marco, mentre l’altra ne mormorava, quando il provveditore, fatte leggere le concessioni che la Repubblica prometteva al buon popolo trevigiano, questo fra le grida di Marco! Marco!, alzò la ben amata bandiera ed i contrari fuggirono.

Nel qual fatto si mostrò principalmente operoso un Marco Pelizaro che ne fu poi ben rimeritato dal Senato; il rettore a gratificare il popolo fece bruciare i libri dei debitori del Comune, che fu cosa assai grata, ed il Senato lodando la fedeltà di Treviso la eccitava a far conoscere quali sarebbero i bisogni dei cittadini e specialmente del contado. Anche il Friuli in gran parte si sosteneva, e Udine mandava a Venezia a domandare stradioti per difendersi.

Cittadella all’incontro si perdeva per il tradimento di Pandolfo Malatesta, e per ovviare che avvenisse anche altrove tumultuariamente qualche sinistro, si mandavano truppe alla custodia di Mestre e dei luoghi vicini e vi si erigevano fortificazioni. Cadevano alfine le ultime terre di Lombardia.

Prime speranze di miglior fortuna per riavvicinamento col papa.

Era giunto intanto il giorno solenne del Corpus Domini, solito a celebrarsi a Venezia con pomposa processione, e il Senato, dopo discusso se stante la scomunica far si dovesse quella processione, aveva deliberato che la si facesse senza le pompe consuete e solo ad onore di Dio e con quella sommissione quale ricercavano i bisogni e la debita riverenza verso sua Divina Maestà.

Un qualche raggio di speranza pareva spuntare. Il papa che in fondo non vedeva volentieri tutte quelle armi straniere in Italia, mostrava qualche inclinazione ad un componimento e per lettere del cardinal Grimani si sapeva che egli avrebbe gradito gli fossero destinati sei ambasciatori. Il Senato desiderosissimo di far levare le censure che più pesavano delle armi nemiche, approvava che gli ambasciatori fossero nominati, e dava loro il 20 giugno la commissione di esporre a Sua Santità: come fossero illimitati i disegni dei Francesi: aver la Repubblica più volte mandato all’imperatore per unirsi con lui e con la Santa Sede, ma non aver egli voluto neppur dare ascolto ai tanti messi inviatigli, e ciò come si credeva per opera di alcuni che gli erano dattorno, e in modo contrario al suo animo che certo avrebbe voluto evitare tanti mali; volesse dunque Sua Santità supplicare la Cesarea Maestà a non prestare orecchio ai Francesi e non procedere più oltre, anzi la sollecitasse a divenire alla desiderata lega; non volesse Sua Santità permettere che i particolari veneziani soffrissero danni nelle loro possessioni ed averi in Romagna, liberasse i rettori prigioni, un secretano ritenuto e le prese artiglierie restituisse: si lodava molto l’idea e si confortava all’esecuzione di una guerra contro gli infedeli, solo desiderando la Repubblica di non essere nominata finché la faccenda non fosse ridotta ad atto onde per la vicinanza dei confini non ne avesse ruina senza frutto. Dovevano poi gli ambasciatori domandare dal papa un capitano o Giampaolo Baglioni, o Lorenzo da Ceri, o Troilo Savelli, e la restituzione del danaro che la Repubblica aveva già per l’addietro pagato per la condotta degli Orsini e dei Savelli; giustificare infine l’imposizione delle decime ecclesiastiche già concesse nella guerra contro gli infedeli da papa Paolo e dai suoi successori.

E primi dissidi tra Massimiliano e Luigi XII

Rialzavano altresì le speranze dei Veneziani alcuni segni di disgusto che già cominciavano ad apparire fra Massimiliano e Lodovico, il malcontento dei popoli verso i nuovi dominatori, che con le angherie e con le violenze di ogni genere facevano continuamente sentire quanto il loro dominio pesasse e riaccendevano il desiderio dell’antico. (1) … segue

(1) SAMUELE ROMANIN. Storia Documentata di Venezia Tomo V. Tipografia di Pietro Naratovich 1856.

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