La Guerra della Lega di Cambrai (1508-1516). V parte

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Mappa di Bologna

La Guerra della Lega di Cambrai (1508-1516). V parte

Provvedimenti della Repubblica

La Repubblica dunque ben lontano dal rimanere ignara di quanto contro di lei si macchinava, smentendo in questa occasione principalissima quella fama di avvedutezza in che era sempre stata, ben lontano da dover al puro accidente una tanta scoperta, ne riceveva avvisi da tutte le parti, e una lettera dello stesso re di Francia da Blois 18 dicembre 1508 al Lascaria suo oratore a Venezia, al quale commetteva di riferire alla Signoria che nel trattato di Cambrai si era stabilito che ciascuna parte avrebbe entro quattro mesi a nominare i suoi aderenti, doveva bastare certamente a confermarle la verità di quanto già d’altra parte le si annunziava. Perciò fino dal 23 gennaio 1509 troviamo decretato l’aumento delle sue genti d’armi fino a dieci mila cavalli; scriveva il senato al suo oratore a Roma avvisandolo essere ormai certa la venuta dei due re alla rovina d’Italia e procurasse assicurare il papa della devozione della Repubblica e di tenerselo benevolo; scriveva all’oratore in Ungheria raccomandandogli ogni più efficace ufficio per distogliere quel re dall’aderire alla lega; scriveva al Caroldo in Milano cercasse tirare segretamente Gian Jacopo Trivulzio al servizio della Repubblica; al console Lorenzo Giustinian a Londra sulle mire del cardinale di Roano cui attribuivano tutto questo macchinamento per ottenere per sé il papato, al re di Francia l’impero; si faceva raccolta di danaro, si fortificavano i passi, si mandavano presidi in Puglia, e già fin dal 5 febbraio si avevano pronti trenta mila fanti, trecento uomini d’armi, tremila cavalli leggeri, e si stavano attendendo gli stradioti, famosa cavalleria leggera delle isole greche, che si erano mandati a levare.

Incendio dell’Arsenale

E all’ansietà che produr doveva naturalmente l’aspettativa di una guerra tremenda e quasi contro tutta Europa, s’aggiungevano spaventevoli avvenimenti ad atterrire gli animi. Era il 14 marzo, i Consigli erano adunati, quando si udì improvviso scoppio che tremar fece il palazzo e spezzare i vetri e agghiacciare il cuore a tutti i senatori. Erano alcuni barili di polvere che avevano preso fuoco nell’Arsenale. Riavuti dal primo spavento corsero abbasso i magistrati a vedere, a sopravvedere. Ma quale scena di orrore! case rovinate, tetti sfondati, pietre lanciate a molta distanza, gente che disperata fuggiva, grida, pianto, desolazione. Furono presto chiamati tutti i facchini di Rialto, i patrizi stessi si recavano sul luogo a disporre perché le fiamme dagli edifici vicini all’Arsenale maggiormente non si estendessero, a far levar di sotto alle rovine i morti ed i feriti, a dar soccorso alle infelici famiglie, e tali e tanti furono gli sforzi che si pervenne perfino a donare l’incendio. Della causa del quale varie correvano come al solito le opinioni, né si mancava di vociferare fosse stata opera, come i più credevano, dei Francesi; furono fatti alcuni arresti, ma il Consiglio dei Dieci non poté cavar nulla di accertato: alcuni facchini dissero che nell’inchiodare una cassa di polvere, una scintilla era uscita di sotto i colpi del martello ed la aveva accesa. E fu ventura che quattromila barili fossero stati il dì innanzi imbracati per Cremona, ché altrimenti la città tutta avrebbe potuto correr pericolo di essere dalla tremenda esplosione sovvertita.

Maneggi politici

Giungevano notizie da Spagna e da Roma della giurata lega, e tuttavia la Repubblica non continuava ancora di mettere in opera ogni mezzo per dissipare od almeno allontanare il pericolo. Gradiva perciò le offerte di mediazione fatte dal re d’Inghilterra e si volgeva al papa che pur mostrava, almeno in apparenza, quasi un pentimento dei vincoli da lui incontrati coi principi della lega e un desiderio di stornare dall’Italia i pericoli onde era minacciata, offrendogli la restituzione anche di Faenza e Rimini e di venire a componimento sopra ogni altra differenza, ma invano.

Commissione al segretario Stella presso all’imperatore

Né si lasciava di tentare l’imperatore, al quale si mandava il segretario Pietro Stella con la commissione di protestare della continua devozione di osservanza della Repubblica verso Sua Maestà; che se l’anno precedente non si era potuto accondiscendere al desiderio suo, era ciò avvenuto per non mancar di fede alla Francia; che la principale causa dell’aver questa in modo così aperto e detestando rotto i trattati, veniva dalla tregua conclusa dalla Repubblica con l’imperatore; ora essere sciolti i Veneziani da qualunque impegno con il re Cristianissimo; avere Iddio permesso che questi si conducesse il tal modo per dar legittima occasione a S.M. di vendicarsi di tante ingiurie e violazioni manifestissime di patto, aggiungendo che per la grandezza dell’affezione e devozione portare all’imperiale Maestà non poteva il Senato astenersi di farle intendere essere l’obietto del re di Francia e del cardinale di Roano di occupare il primo grado spirituale e per questo poi anche il temporale in pregiudizio della Maestà cesarea e della Germania, lo che facilmente verrebbe lor fatto, se Sua Maestà non provvedesse a tempo con la sapienza, autorità e potenza sua, non essendo punto tenuto a serbar la fede a chi così indegnamente e più volte l’aveva calpestata, mentre invece aveva sempre la Repubblica mantenuto i suoi impegni, e li manterebbe nell’avvenire, per cui, conchiudeva l’istruzione all’ambasciatore, “premisse et ben esplicate et impresse le parti soprascritte, devenirai a questa conclusione che la Signoria nostra è promptissima et paratissima a stringeresi ad una buona pace et intelligentia cum Sua Maestà Cesarea offrendogli et denari et tutte le genti et forze del stato nostro, ad ogni beneficio della Maestà Sua, et te forzarai cum ogni tuo spirito et ingegno persuader, disponer et indur la prefata Cesarea Maestà ad questo cammino usando tutte queste razon che pareranno alla prudentia tua“.

Discorso del doge nel Maggior Consiglio

Ma non trovava ascolto: il momento era supremo; ed il doge Leonardo Loredano raccolto il Gran Consiglio rammentava “come questa terra fondata dai santi progenitori mediante il divino ausilio, da umili casoni e infimi abituri era pervenuta a tanta altezza: ciò averle mosso contro l’odio dei principi, ciò li rese ingrati ai suoi benefici, e il re di Francia specialmente cui la Repubblica aveva pur assicurati i suoi Stati in Italia, né cui poi aveva voluto romper fede respingendo le larghe offerte del re dei Romani, ora era alla testa dei suoi nemici, aver richiamato il suo ambasciatore, venire potentissimo per torre il nostro Stato“. E però esortava che cominciando da Dio ottimo massimo a Lui si raccomandassero, i propri corrotti costumi emendassero, facessero giustizia e rettamente procedessero nelle elezioni agli uffici onde il solo merito e non broglio trionfasse, infine concorressero tutti con le loro sostanze e con la vita, “perché perdendo, perderemo un belo stato, non sarà più gran conseio, non saremo più in una terra libera“, e a dare l’esempio egli primo, fatto il solito banchetto pubblico del giorno di San Marco, metterebbe i suoi argenti nella zecca, facessero gli altri il medesimo. E ciò dicendo era smunto e mal si reggeva per l’età che aveva avanzatissima e per l’intensità del dolore, tal che era una compassione il vederlo.

Primi movimenti di guerra

Tutto dunque era movimento di guerra. Già erano giunte notizie essere penetrate le genti francesi sul territorio veneziano, le pontificie sulle terra di Ravenna e Cervia con orrende crudeltà; allora la Repubblica appigliandosi ad ogni mezzo che le suggeriva la propria difesa eccitava il Bentivoglio al riacquisto di Bologna, ordinava sebbene con dispiacere ad Angelo Trevisan capitano generale danneggiasse quanto più potesse le coste di Romagna. 

Il Papa scomunica i Veneziani

 Il papa, dal canto suo, di conformità a quanto si era impegnato con i suoi collegati, emanava il 27 aprile 1509 la famosa sua Bolla di scomunica contro la Repubblica, cui tacciando d’ingratitudine siccome quella che cresciuta e fatta potente per i favori, per i privilegi e perfino per i danari della Santa Sede, era divenuta sì orgogliosa da recare molestia i vicini e invaderne le terre, com’era avvenuto specialmente non ha molti anni di quelle del duca di Ferrara, e di molte perfino alla pontificale sede appartenenti; né aver valso a ottenere la piena restituzione né le ammonizioni papali, né gli uffici di Cesare; oltre a ciò aver essa Repubblica ricettato i ribelli Bentivoglio di Bologna, aver posto impedimento alle nomine pontificali ai vari vescovadi e benefici ecclesiastici; voler essa render giustizia a modo suo agli ecclesiastici, non dar corso a rescritti apostolici, se non con sua approvazione, aggravar d’imposte i beni del clero, punire con carcere e bando persone ecclesiastiche, non tollerar legge né comando. E mentre egli, il Papa, si sforzava a ridurre a pace tutti i principi cristiani e unirli in una lega generale contro gli infedeli, esser a ciò ostacolo i Veneziani, opponendo i principi non potersi indurre a combattere gli infedeli, perché mentre le loro cure fossero altrove rivolte, avrebbero potuto i Veneziani profittarne per molestare i loro sudditi e invaderne gli Stati. Per cui da tanto motivo eccitato, egli dava di piglio alle armi temporali e spirituali e pronunziava solenne scomunica ed interdetto contro tutto lo Stato veneziano se fra ventiquattro giorni di muovere contro di loro e dispogliarli, e impedire il loro traffico e far loro insomma tutto il male possibile, rinnovando le scomuniche già contro i medesimi Veneziani pronunziate da Clemente V e Sisto IV.

Deliberazioni a questo proposito

Il governo veneziano alla notizia di si veemente Bolla e sentendo profondo dolore della violenza con cui il papa contro di loro procedeva, ma non perciò smarrito dell’animo, raccoglieva il Collegio e il Consiglio dei Dieci nel quale veniva deciso di non permettere per alcun modo la pubblicazione della scomunica, severamente vietando a ciascuno di riceverla e deputando vigili guardie e staccare ogni cartello che trovassero sulle muraglie; consultò poi con i dottori in teologia per fare un’appellazione, e fu deliberato mandarla al cardinale Strigoniense in Ungheria che essendo patriarca costantinopolitano, era uno dei quattro patriarchi aventi facoltà di convocare concilio. La polizza di appellazione fu portata da due corrieri nascostamente in Roma stessa ed affissa alle porte della chiesa di San Pietro, ed il papa dal canto suo vi rispose dichiarandola illegale, nulla ed irrita.

Condizione delle cose

Così gli animi sempre più si esacerbavano e la Repubblica vedendo di nulla poter ottenere dal pontefice, si volse di nuovo a tentar di staccar dalla lega l’imperatore. Scriveva quindi al segretario Giampietro Stella mettesse in opera per procurarsi un’udienza da Massimiliano, e gli si offrisse fino a duecento mila fiorini del Reno ed ogni sussidio all’acquisto del Milanese se acconsentisse ad un’alleanza con essa. Intanto ardeva la guerra e gli avvenimenti si succedevano con tale rapidità da non lasciar tempo a maturare e condurre a termine alcun buono provvedimento né delle armi né della politica. (1) … segue

(1) SAMUELE ROMANIN. Storia Documentata di Venezia Tomo V. Tipografia di Pietro Naratovich 1856.

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