Gasparo Gozzi (1713-1786) librettista e letterato veneziano, e la seconda moglie Sara Cènet

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Sotoportego Gasparo Gozzi. Sestiere di San Polo

Gasparo Gozzi (1713-1786) librettista e letterato veneziano, e la seconda moglie Sara Cènet

Sara Cènet, figlia di un ortolano parigino, viveva nella capitale della Francia campando, miseramente, poiché sebbene fosse un’abile sarta pure la fortuna non le aveva mai sorriso

Nel 1760 erano di passaggio a Parigi le due sorelle Sacchi ballerine veneziane, di facili costumi e bellissime, le quali avendo conosciuta la Sara ed apprezzata la sua abilità, le si presentarono come due grandi dame, le dettero qualche ordinazione e la indussero ad abbandonare la famiglia e seguirle a Venezia promettendole una ricca clientela.

La fanciulla illusa partì con le pretese dame, ma giunta a Venezia capì presto il vero essere delle sue protettrici per il suo onore in pericolo si confidò ad reverendo Giambattista Gaspari, parroco di Sant’Angelo. Il buon prete prese a cuore la giovane donna, cercò subito tra le sue parrocchiane che potesse aiutarla e trovò la signora Marianna Mastraca, madre di due figliolette e moglie di tal professore di Padova, che la prese con sé per insegnare alle due bambine il cucito e la lingua francese.

Abitava allora presso la signora Mastraca, Gasparo Gozzi, scappato dal’inferno di casa sua dove imperavano sua moglie Luisa Bergallipoetessa delirante, e cinque figli che non davano pace“, e qui conobbe la Sara e tra i due sorse una simpatia reciproca che in poco tempo si cambiò in vera amicizia.

In una sua lettera il Gozzi scriveva che “la buona Sara aveva il migliore e più saggio carattere del mondo“, aliena dai divertimenti, onesta, di delicato sentire, intenta sempre al lavoro. E quando egli si riconciliò con la moglie e ritornò ad abitare la sua casa desiderò con sé la giovane e, con il consenso di tutta la famiglia, la prese in casa sua come educatrice delle tre figliole.

Però quella buona lana di Francesco Gozzi, il maggiore dei figli, nei frammenti delle sue Memorie conservate nel nostro Museo Civico, asserisce che il vero movente di Gasparo in tale faccenda “fu di poter amoreggiare con più comodo la francese“, ma osserva giustamente Vittorio Malamani, in un suo studio pubblicato sull’Archivio Veneto, che “è dubbia la fede d’un figlio che parla così di suo padre“.

In casa Gozzi, “gabbia di matti“, la buona Cènet continuò a lavorare da sarta, anche per conto della patrizia Caterina Dolfin moglie del procuratore Tron, e conoscendo le ristrettezze economiche dei suoi benefattori, compensava loro una buona parte delle spese e del fitto in ragione di cento ducati annuali.

Morta la Bergalli, Gasparo Gozzi grato, a quanto si dice, delle cure avute dalla Sara in una sua grave infermità, la sposò con grande scandalo del fratello Carlo, quello delle fiale, e dei figli che odiavano di cuore la matrigna.

Intanto gli sposi erano passati a Padova, conservando sempre la protezione anche economica della patrizia Dolfin; Gasparo nel 1782 coltivava le bietole e le carote nel suo orticello e la nuova moglie curava i bachi da seta andando in giro “con un famoso ombrello in mano di tela verde, affinché il sole non le appiccasse il fuoco come all’esca, tanto era magra. Ed anche i polli erano così grassi, che una volta fuggirono tutti dalle cantinelle della gabbia“.

Questo fu il periodo abbastanza tranquillo nella travagliata esistenza del povero Gozzi, ma purtroppo le frequenti emicranie, l’indebolimento sempre maggiore delle gambe e certi febbroni da cavallo gli avvelenarono spesso i piaceri campestri. Anzi nel delirio di una di queste febbri egli tentò di annegarsi nel Brenta; fu salvato e mercé la cure della buona Sara poté riprendere i suoi passatempi e i suoi studi.

Gasparo Gozzi morì nel 1786 a settantatrè anni, la moglie passò qualche anno a Venezia, ma poi si ritirò a Vicinale dove chiuse la vita nel 1796 ricordando sempre la grande bontà del suo Gasparo. (1)

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 20 gennaio 1929

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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