Marco Antonio Memmo. Doge XCI. — Anni 1612-1615

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Sala dello Scrutinio. Pietro Bellotti (attribuzione). Ritratto di Marco Antonio Memmo

Marco Antonio Memmo. Doge XCI. — Anni 1612-1615. (a)

Fra i concorrenti al principato Marco Antonio Memmo, Antonio Priuli, Giovanni Bembo e Giovanni Mocenigo, si eleggeva, il 24 luglio 1612, il Memmo, e, per insolito caso, al primo serutinio; e fu ciò reputata grande ventura, imperocché erano corsi quasi due secoli e mezzo che nessuna delle antiche case aveva conseguito quell’onore; cosa che aveva irritato gli animi di coloro che ad esse case appartenevano, in guisa da temere non nascesse qualche disordine. Perciò l’avvenimento al trono del Memmo recò immensa gioia alla città. E d’altra parte era egli degnissimo di conseguire la suprema dignità della patria, per le cariche luminose da lui sostenute con molto senuo e prudenza.

Continuavano gli Uscocchi, come vedemmo, a pirateggiare nel golfo, e perfino sui lidi, ed, ingrossati da alcuni banditi veneziani, uscirono da Segna loro nido, correndo sul territorio ottomano, ove fatta ricca preda la recarono alle case loro passando per Schenico, appartenente ai Veneziani, insultando ovunque recavansi, con non poco sdegno del sultano, che minacciava la Repubblica; dichiarando, che se dessa non potesse o volesse metter freno ai fatti sì gravi egli stesso vi si adoprerebbe. Mandava quindi la Repubblica nuove forze nell’ Adriatico, ed il provveditore Filippo Pasqualigo li sconfiggeva a Lesina: ma venendo a loro fatto, poco appresso, di trovare la galea di Cristoforo Veniero mal sulle guardie, improvvisamente la sorpresero, se ne impadronirono, uccisero tutto l’equipaggio, ed il Veniero trassero alla Morlacca, luogo poco distante da Segna, ed ivi, troncatogli il capo, e strappatogli il cuore, nuovi cannibali, se ne cibarono, intridendo nel suo sangue il loro pane. A cotale enormezza inorridirono i Veneziani, gridando vendetta. Perciò si spediva nuovamente Filippo Pasqualigo a stringere d’assedio Segna, poiché l’arciduca Ferdinando, sollecitato, non poneva riparo, ma anzi si era giovato dell’artiglieria tolta alla predata galea del Veniero per munire la piazza di Novi. Ma il Pasqualigo avendo poco appresso chiesta licenza di ripatriare, Nicolò Donato a lui sostituito, nel mentre che attendeva in Veglia a prepararsi alla pugna morì, e quindi gli fu surrogato Lorenzo Veniero. Il quale attaccò la piazza di Novi anzidetta, la prese, poi a fuoco, tolse i cannoni, distrusse le saline, e trasse prigione il capitano. Di questo fatto sdegnatosi Ferdinando, sequestrar fece tutte le entrate che ritraevano i Veneziani dalli di lui Stati; e per rappresaglia operò altrettanto la Repubblica, in riguardo a quelle dei sudditi austriaci da lor possedute nel veneto dominio.

Da questi fatti a più gravi passando, gli Uscocchi, uniti alle genti dell’arciduca, infestarono con rapine ed incursioni i confmi dell’Istria, ma furono respinti e posti in fuga dalle veneziane milizie. Accadde però che i nostri incalzando i nemici, entrassero nelle terre di Benvenuto Petazzo, ed in parte le guastassero, sicché costui poneva al bando il provveditore Benedetto Da Legge, e questi bandire faceva il Petazzo più severamente, ponendo a fuoco alcuni luoghi nemici. Senonché, usciti i Triestini, e con essi accoppiatosi Volfango Frangipane, che era alla testa di grossa mano di Tedeschi e di Uscocchi, toccavano i Veneziani sconfina, onde fu costretto il Senato pensare seriamente a domar tanta audacia, ed elesse a provveditore generale in Terraferma Pietro Barbarigo, procurator di S. Marco; generale in Istria Marco Loredano, e capitano delle armi Paolo Emilio Martinengo, ordinando, in pari tempo, a Francesco Erizzo, generale in Palma, che, sotto la direzione di Pompeo Giustiniani, occupasse le terre di qua del Lisonzo, affine d’impedire il passaggio agli arciducali, i quali, siccome correva voce, si disponevano di scorrere fin sotto la medesima Palma.

D’altra parte, nel frattempo, si turbavano gravemente le cose in Lombardia. Perché, morto Francesco Gonzaga duca di Mantova, lasciando soltanto una figlia in tenera età avuta da Margherita sua moglie, figlia di Carlo Emmanuele, duca di Savoja, ed essendo esclusa la successione femminile, il cardinale Ferdinando, fratello maggiore del Gonzaga, a cui toccava succedere nel ducato, impediva che la moglie e la figlia del duca defunto passassero presso Carlo, siccome questi aveva procurato, affine di muover contesa intorno alla successione, sul pretesto che la vedova fosse incinta. L’irrequieto Carlo, vedendo quindi mal riuscire le sue arti, che a null’altro miravano se non che a riacquistare il Monferrato, sul quale vantava diritti antichi, decise di ricorrere alle armi. Di fatti entrava con le sue genti nelle terre vagheggiate, e con ciò destava gare e gelosie negli altri Siati, tra cui in quelli di Spagna e di Francia; onde la Repubblica metteva tutto suo impegno nel sostenere il cardinale Ferdinando, divenuto già duca di Mantova. E poiché tutti armavano, i Veneziani, nell’atto che adopravansi per ridurre le cose a pace, armavan del pari, conducendo al loro soldo Luigi da Este, Camillo Cauriolo, Gio. Battista Martinengo, Jacopo Giusto, Antonio Savorgnano, eleggendo a provveditore in campo Girolamo Cornaro, e presidiando robustamente Peschiera.

Carlo intanto continuava la sua invasione nel Monferrato, e già assediava Nizza, lo che diede motivo a Spagna di dichiararsi apertamente in favore del Gonzaga, per cui l’Inojosa, governator di Milano, faceva avanzar le sue genti alla liberazione di quella città. A tante forze Carlo dovette, pel momento, ritrarsi dall’assedio; ma non per questo quietava, né voleva disarmare, come gli era stato imposto, pretestando futili ragioni; onde succedettero maneggi diplomatici vuoti d’effetto, ostinato com’era Carlo di tutto sacrificare fuor che la propria dignità. Lo imperché improvviso passava la Sesia gettandosi nel territorio imperiale, e correndo all’assedio di Novara. Costretto anche qui da forze maggiori a ritirarsi, si riduceva a guerreggiare alla spicciolata, onde il paese era desolato d’ambe le parti. Finalmente riuscivano a bene le pratiche premurosamente maneggiate da Renieri Zeno, ambasciatore della Repubblica, ed in Asti si segnava, il 25 giugno 1615, la pace, in virtù della quale, tra le altre cose, era convenuto che Carlo disarmerebbe entro un mese, né più offenderebbe gli Stati del duca di Mantova, restituendosi ambedue le parti le terre occupate.

Poste in quiete per tal modo, sebbene per poco, le cose d’ Italia, alcuni mesi dopo, cioé il 31 ottobre 1615 (e non il 29, come per errore dice l’iscrizione sepolcrale) veniva a morte il doge Marco Antonio Memmo, ed otteneva sepoltura e monumento cospicuo in S. Giorgio Maggiore (b).

II ritratto del Memmo, già colorito da Domenico Tintoretto, giusta il Ridolfi,  guastatosi anche questo dalle piogge, veniva rifatto, forse, dal Bellotti. Per ciò, l’iscrizione riportata dal Palazzi non più esiste, surrogata dalla seguente. L’antica diceva: Domi iustus, foris ferox piratas exegi, bella externa sustuli. Pacata Italia, aquilas termi leo, mox columba reduxi. Servavi, et propagavi imperium.

M. ANTONIVS MEMMVS SVIMET CVNCTOR FERE CONTINENTIS BIS ETIAM VRBIVM HINC PATRI A E RECTOR MDCXII. (1)

(a) Marco Antonio Memmo nacque il dì 11 novembre 1556, da Giovanni q. Tribuno e da Rianca Sanudo di Matteo q. Matteo. Coltivato negli studi, e dietro gli esempi dei maggiori riuscì dei più ragguardevoli personaggi del tempo suo nella civile e politica amministrazione. Il primo ufficio da lui sostenuto fu quello di savio agli ordini nel 1561; fu poi nel 1568-69 capitano a Vicenza. Quindi nel 1575 venne eletto capitano a Brescia: podestà in Verona nel 1584, e a Padova nel 1586.  Spedito nel 1597 siccome provveditore generale a Palma, drizzò ivi il nuovo fiume sino a Strasoldo, due miglia distante da Palma, ed appianò una strada per poter facilmente condurre in fortezza quanto per mare colà si spediva. Passava, nel 1601, podestà a Brescia, nella quale città avendo sedati, con molto suo onore, alcuni tumulti insorti fra cittadini, meritava di essere promosso, il 25 gennaio 1602, a procuratore di S. Marco de ultra, in luogo del defunto Zaccaria Contarini.  In questi intervalli di tempo e posteriormente, varie cariche interne sostenne con molto decoro e con somma integrità, sicché fu più volte senatore, poi censore, del Consiglio dei X, e capo molte fiate di esso; fu uno degli elettori del doge Pasquale Cicogna, consigliere nei sestieri di santa Croce e di Dorsoduro, inquisitore di stato più volte, depositario in Zecca, conservatore del deposito, sopra-provveditore alle biade, provveditore all’artiglieria ed alle fortezze, del collegio delle acque, sopra-provveditore alla sanità, all’arsenale, ed in particolare sopra la costruzione delle cento galee del 1602, delle galee grosse e del nuovo bucintoro, usatosi la prima volta il dì dell’Ascensione 4 maggio 1606. Ebbe inoltre la sopra intendenza delle fabbriche pubbliche nella piazza di S.Marco; fu riformatore due volte 1602 e 1608, dello studio di Padova, ed eletto particolarmente ad invigilare per il pacifico stato della capitale, siccome dice il Morosini (Stor., lib. XVII). Inseguito, cioé nel 1607, dal consiglio de’X fu delegato, unitamente ad Antonio Priuli, a rilevare e definire alcune gravi difficoltà insorte tra i feudatari del Friuli ed i nobili di Udine, e a quelle pose fme con ottimo successo. Venne due volte eletto correttore della promissione ducale: concorse alla ducea dopo la morte di Marino Grimani, rimanendo però eletto Leonardo Donato, e finalmente, passato questo a vita migliore, nscese al soglio ducale. Era egli, come attesta Fulgenzio Manfredi, di ben proporzionata statura del corpo, dì ben compassata positura delle membra, di ben lineata e veneranda bellezza della faccia. Ebbe un figlio di nome Francesco, il quale fu dal padre concesso a S. Carlo Borromeo, che lo aveva richiesto per aggregarlo al collegio dei nobili di Milano, ma sopraggiunta la peste in quella città, si ritirò a Roma sotto la protezione del medesimo S. Carlo, e quindi nel 1590 fu fatto canonico della cattedrale di Padova, ed ebbe la dignità di tesoriere in quella chiesa, dove eresse e dotò un ricco altare ad onore del Santo stesso, canonizzato durante la vita del Memmo. Il doge suo padre gli lasciò in morte, per ragion di legato, centoventi ducati annui, nel mentre che, col suo testamento 18 febbraio 1613, lasciava eredi residuarii i figli di suo fratello Tribuno, come dalla inscrizione sepolcrale anche s’impara, ordinando loro di erigergli un deposito nella chiesa di S. Giorgio Maggiore. Oltre il ritratto superiormente accennato, vedesi il Memmo espresso in un ampio quadro che era collocato nell’andito della sala del Maggior Consiglio e della Quarantia vecchia, ove appare egli pro strano davanti alla Vergine, assistito dalli santi Marco, Antonio, Agostino e Jacopo, e seguito dalle varie personificate città, in cui il Memmo fu rettore prima di salire al trono. Ora questo dipinto é nei depositi del Palazzo Ducale medesimo in attesa di essere nuovamente collocato in luogo opportuno. In torno poi ad altre minute particolarità della vita di questo doge, veggosi l’opera più volte encomiata (Ielle Inscrizioni Veneziane ( Voi. IV, pag. 493 e seg., e V, pag. 550 e 614 ) dell’illustre cav. Cicogna, dalla quale cavammo in gran parte le notizie qui offerte.

(b) Il monumento del doge Memmo é collocato nella parte sinistra della porta maggiore di S. Giorgio. Si erge sopra il basamento medesimo che ricinge tutto intorno quel tempio nobilissimo, è decorato di sei spiccate colonne d’ordine corintio, formanti tre intercolunni, nel centrale dei quali, più spiccato degli altri, é l’urna sepolcrale, sormontata dal busto del principe. Gli altri due accolgono i simulacri della Fede e della Carità, e la parte centrale é decorata di frontispizio, sul pinacolo del quale é lo scudo gentilizio fiancheggiato da due genii; nel mentre il monumento tutto coronasi di un attico, in cui sono addossate, sopra basi, quattro altre statue figuranti le Virtù cardinali. Lo stile dell’opera accenna aquello dello Scamozzi, ed é poi tutta composta di eletti marmi. Nello zoccolo centrale sotto l’avello, leggesi la seguente inscrizione :

MARCO ANTONIO MEMMO IN REGENDIS POPVI.IS SINGVLARI SVMMA VRBIS ET ORBIS I.AETITIA AD DVCATV VENETIAN. EVECTO. PETRVS ET MARCVS ANTONIVS EX TRIBVNO MEMMO PRONEPOTES ET HAEREDES PATRVO MAGNO FIERI CVRVRVNT . VIXIT ANNOS LXXIIII . IN DVCATV TRES, MENSES TRES, DIES SEX . OBIIT XXVIIII OCTOBRIS MDCXV.

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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