Le fave del giorno dei morti

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Ponte de la Fava. Sestiere di Castello

Le fave del giorno dei morti

Negli ultimi secoli della Repubblica anche la tristezza della morte era accompagnata da tutte le vanità della vita. Le esequie dei patrizi sembravano, specialmente nel seicento, spettacoli suntuosi: lunghi cortei multicolori di scuole con gonfaloni, pennelli, torce, fiaccole; numeroso stuolo di chierici, di patrizi, di magistrati; damaschi, arazzi, bandiere abbrunate alle finestre delle case presso le quali passava il corteo, e nelle cucine dei conventi protetti o beneficiati dal defunto, bollivano immense caldaie di fave che venivano, a cerimonia finita, distribuite alla plebe.

Si chiamavano “le fave dei morti” e il costume risaliva lontano, all’epoca di Roma pagana, quando i gentili se ne servivano nei funebri banchetti o le offrivano agli Dei Mani nelle feste Lemurie in onore dei trapassati.

A Venezia, racconta una vecchia tradizione, il Ponte della Fava in Calle dei Stagneri, il campiello e le tortuose calli adiacenti furono così chiamate da un commerciante di tal legume che aveva negozio nel 1496 presso quel ponte e che per più guadagnare non disdegnava di ricorrere al contrabbando del sale che custodiva nel suo magazzino sotto i sacchi di fava. Un giorno ebbe l’avvertimento da un suo compare che “li proveditori al sal” tenevano d’occhio la sua bottega ed era imminente una perquisizione.

Il negoziante tutto pieno di spavento non sapendo come rimediare poiché il sale stava nascosto sotto la fava, si rivolse ad una Madonna che aveva fama di miracolosa ed era appesa in un piccolo tabernacolo nell’attigua contrada di San Lio e tanto pregò e tante candele accese che la Santa Vergine fece il miracolo: “li oficiali de li proveditori al sal andorno in la botega“, cercarono, frugarono, perquisirono, ma non trovarono nulla.

Tra il popolo corse la voce di quel miracolo; il commerciante acquistò l’immagine sacra giurando da quel giorno di non vendere che fava e il negozio salì a tanta prosperità che egli solo era il prediletto fornitore dei conventi per la funebre dispensa. Così quando più tardi si demolì la piccola chiesa di Santa Maria della Consolazione che s’innalzava nel Campiello della Fava vicino alla riva e si costruì più indietro la chiesa odierna, opera di Antonio Gaspari, le si dette il nome di Santa Maria della Fava, affidandola ai padri di San Filippo Neri.

Il costume di regalare le fave ai poveri nei grandi funerali cessò verso la metà del Settecento, ma sorse allora in tutti l’uso di offrirle il 2 novembre nella commemorazione dei defunti, proprio come nelle feste Lemurie dell’antica Roma. Però essendo il legume alquanto insipido, per i palati golosi dei ricchi si pensò di preparare delle fave dolci, pasticche di marzapane e di zucchero, fatte in forma di fave schiacciate e bislunghe, e poi in forma rotonda di pasticcini. E l’uso delle fave dolci nel giorno dei morti si andò a Venezia sempre più allargando, il fidanzato le offriva alla novizza, il padrone al cliente, il padre ai bambini e nei campi veneziani sorgevano in quel giorno le botteghe ambulanti di fave dei vari colori e dall’antico ricordo funebre rimaneva soltanto il nome: “le fave dei morti“. (1)

Le fave dei morti non sono solo una tradizione veneziana, esistono anche nelle consuetudini triestine. Quelle di Trieste sono rotonde, grandi come una nocciola, fatte di pasta di mandorle e maraschino. Quelle di Venezia sono schiacciate, grandi come una noce, fatte di pasta di mandorle e pinoli. Entrambe sono di tre colori che simboleggiano il ciclo della vita: le bianche (a base di vaniglia) simboleggiano la nascita, le rosa (colorate con l’alchermers) la vita, e quelle di colore marrone (al gusto di cacao) rappresentano la morte.

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 2 novembre 1928.

Ponte de la Fava, Campo de la Fava, e Chiesa di Santa Maria della Fava.

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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