I decreti pro e contro i cani, nella Venezia del Settecento

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Francesco Guardi. Il ridotto di San Moisè (particolare). Venezia Ca' Rezzonico

I decreti pro e contro i cani, nella Venezia del Settecento

Nei due secoli della Repubblica, nelle calli, nei campielli e nei campi della città scorazzavano numerosi cani randagi venuti dalla terraferma e abbandonati dai propri padroni.

Di giorno andavano vagabondi in cerca di cibo, di notte si raccoglievano nei quartieri lontani dal centro, specialmente “all’arzere” di Santa Marta, nelle deserte chiovere di San Rocco e in quelle di San Giobbe, azzuffandosi tra loro, mugolando e abbaiando nel silenzio notturno.

Il Magistrato alla Sanità aveva pubblicato parecchi decreti contro i cani, ma dopo brevissimo tempo rimanevano lettera morta e i cani aumentavano, quando avvenne nei primi gironi d’aprile del 1794 un triste avvenimento che mise a rumore tutta la città. Una graziosa giovanetta, Paula Pizzoni, figli di Giovanni Battista uno dei segretari dell’Eccellentissimo Senato, era stata morsicata da un cane nella contrada di San Giovanni in Oleo, corrottamente chiamata “San Zuane Novo“; dapprima la ragazza non ne fece caso, ma passati appena quattro giorni dovette mettersi a letto con febbre altissima.

Scoppiò come fulmine l’idrofobia, a nulla valsero medici e cure, la poveretta dovette morire tra convulsioni atroci, urla strazianti, belva umana nello spasimo terribile della disperata infezione. La notizia sparsasi subito per Venezia produsse una grande e pietosa impressione, la giovanetta era per la sua bellezza e per le aderenze del padre conosciutissima tra i patrizi e la Gazzetta Urbana stampando il 9 aprile la funesta sciagura concludeva incitando “lo sterminio di tutte le razze cagnesche del mondo, per le quali d’anno in anno la spezie umana perde degli individui fra i dolori più orribili e cui possa soggiacere un vivente“.

Si commosse anche il Magistrato alla Sanità che senza indugio, sulla proposta del nobilissimo Nicolò Vendramin della contrada di San Marcuola, pubblicò subito un decreto a Rialto e a San Marcoet alle colonnelle del Magistrato” e volle che di Domenica fosse letto in tutte le chiese, affisso a tutti i traghetti e dato in parecchie copia ai medici, ai chirurghi e ai capi contrada.

Il decreto diceva: “Ogni persona di qualsivoglia grado e condizione che fosse padrone o custode di cani, sia obbligato di averne cura e custodia non permettendo loro di vagare per la città, in pena della perdita del cane e cento lire di multa. Sarà preciso e indispensabile debito di ogni padrone o custode di cani ad ogni primo sospetto o dubbio che sia entrata in essi l’infezione rabbiosa, di farli tosto ammazzare“.

Passati giorni quattro dalla pubblicazione della presente, il Capitanio del Magistrato nostro “trovando cani per le strade vaganti senza la scorta del loro padrone, dovrà quelli prendere et ammazzare in modo che questa Dominante sia resa libera e netta da cani vagabondi“. E si stabiliva che per ogni cane ucciso il Capitanio avesse un premio di lire tre e soldi due da prelevarsi dalla cassa del Magistrato alla Sanità.

Così, spirato il termine concesso, cominciò per la città la caccia al cane randagio e per parecchie sere si udirono nelle chiovere di San Rocco e in quelle di San Giobbe guaiti di cani e colpi di moschetto.

Ma in attesa che i cani fossero soppressi il Magistrato aveva ordinato “ali botteghieri, erbaroli, calegheri, ciabattini, parrucchieri e venditori di caffè” di tenere tutto il giorno fuori dalle porte delle loro botteghe in sito esposto sulla pubblica strada, una mastella d’acqua dolce e netta, in pena, nel caso di omissione, di ducati cinque di multa da essergli sul fatto intimata da ogni fante del Magistrato che rilevasse la trasgressione.

Col tempo alle “mastelle” si aggiunsero quelle piccole vasche incavate nei pozzi, delle quali molte rimangono ancora, ed era cura speciale dei capi contrada e dei facchini dei rispettivi campi tenerle monde e nette e sempre piene di acqua pura “perché trovino i cani da dissetarsi“. (1)

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 11 dicembre 1930

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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