L’ultimo giorno di carnevale: “Siore maschere, zozo la maschera!”
Nell’ultimo giorno di carnevale i campi famosi per le feste erano tre, Campo San Polo, Santa Margherita e Santo Stefano, e si davano corride di tori, giostre, lotte e corse di cavalli, ma in tutte le strade ed in tutti i campi c’era baldoria che finiva poi come l’acqua di un fiume nel mare di Piazza San Marco. Era permesso in quel giorno di girare per la città coi tori e di far “molate” cioè sguinzagliare i cani contro i tori, dovunque piacesse a chi conduceva il toro legato per le corna. Essendo però accaduto qualche volta che l’animale scappasse o si rompesse la corda con pericolo e spavento della gente nelle anguste strade veneziane, il Consiglio dei Dieci proibì a mezzo del settecento la pericolosa consuetudine.
Così la caccia si limitava nei tre campi, ma negli altri c’erano i giochi “de pigliar l’oca nell’acqua, pigliar le anare, amazzar la gatta, ed il ziogo del calzo (calcio) per i soli zentil’huomini“.
A Santo Stefano, dopo la caccia, c’era il “liston” delle maschere “di ogni qualità di persone fino a quasi una hora di notte“, e si chiamava “liston” da una gran lista lastricata che attraversava il campo, ancora nelle altre parti ricoperto dall’erba.
Un pandemonio di grida, di allegria, di suoni era alla sera a San Marco; la matta agonia carnevalesca prorompeva sfacciata, mentre il campanone, due ore prima di mezzanotte, cominciava a suonare. Il pulpito di legno, sul quale era costume fin dal 1502 predicare al popolo due volte la settimana e che stava presso la chiesa di San Geminiano, era preso d’assalto e tirato in giro sulle sue ruote per lungo e per largo, con getto continuo di frutta, di dolci, di confetti.
Il campanone suonava, a mezzanotte dalla loggetta del Sansovino partiva un’ammonimento: “Siore maschere zozo la maschera!” e l’ordine si ripeteva lungo la Piazzetta, la Piazza e le Procuratie, e la folla gaia e spensierata riempiva allora i caffè, i magazzini da vino, le trattorie dove, racconta il Dotti, poeta satirico:
S’aspettava la mattina
Per il solito “Memento”
Nella chiesa più vicina,
E fra maschere, aspettando,
si facea del contrabbando. (1)
(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 24 febbraio 1925.
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