Vitale II Michiel. Doge XXXVIII. Anni 1156-1172

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Vitale II Michiel. Doge XXXVIII. Anni 1156-1172

Eletto venne a successore del Morosini, nel febbraio d 1156, Vitale II MichieI, il quale subitamente, al dir del Roncioni, così bene si adoperò, che fra le due repubbliche Pisana e Veneziana, accordò pace, molto onorata per l’una e per l’altra parte.

Non era però questa la sola cosa a cui doveva provvedere il nuovo doge, ebbe qui e qua si sollevava per l’Italia un nembo, cui era mestieri guardare con attento occhio, onde non avesse a recare mali funesti alla patria. Milano, che non intendeva riconoscere la podestà di Federico Barbarossa, messa al bando dell’impero, quantunque difesasi valorosamente dalle armi teutoniche e da quelle di altri di lei nemici con le stesse collegate, dovette cedere, e veder quindi Federico, in Monza, cingersi la fronte della corona italica. Ma ben tosto insorse, e con essa insorse Crema, la difesa della quale ultima fu annoverata tra le più memorabili e gloriose nella storia italiana.

La morte frattanto accaduta del pontefice Adriano IV fece nascer lo scisma, imperocché il partito guelfo, avverso all’ imperatore, elesse a succedergli il cardinale Rolando Bandinelli, che assunse il nome di Alessandro III; ed il partito ghibellino prescelse invece il cardinale Ottaviano, che volle essere appellato Vittore IV. Dalla quale sventura originò i mali sofferti dalla Chiesa e dall’ Italia; ché Federico, fatto riconoscere dal conciliabolo di Pavia per legittimo successore alla cattedra di Piero, Vittore; e, per lo contrario, salutato pontefice vero Alessandro da Francia, Inghilterra, Spagna e Venezia, non che da Milano e da altre città del suo partito, non potendosi venire a concordia, si ricorse nuovamente alle armi, sicché Milano stessa fu prima, nel 1161, a sostenerne gli assalti, e quindi ad arrendersi per la seconda volta. E perché i Veneziani si erano dichiarati in favore di papa Alessandro, il Barbarossa mosse a loro danni e Padovani, e Veronesi, e Ferraresi, i quali s’impadronirono repentinamente di Capo d’ Argine, ed eccitò pure i Trevigiani, che tentarono invano di prender Caorle, con grave perdita loro; come con grave perdita dovettero ritirarsi i primi, dopo di aver quasi distrutto Loredo e Capo d’Argine anzidetto.

La devozione professata verso dell’imperatore dal patriarca di Aquileia Ulrico, e più la ruggine che nutriva egli in cuore contro la Repubblica, a cagione di avere papa Adriano IV assoggettata la Dalmazia al patriarcato di Grado, lo mosse a volgersi a danno di lei e del patriarca anzidetto. Colto pertanto il momento che i nostri erano distratti nelle imprese guerriere dianzi accennate, raccolse buona mano di genti dai feudatari del Friuli, e si avviò ad occupare a tradimento la città di Grado; sicché fu costretto il patriarca Enrico Dandolo fuggire e ritirarsi a Venezia. Ma non sì tosto giunse la nuova al doge, che, radunata la flotta, si portò ivi egli stesso circondando l’isolo, e quindi poste in terra le truppe, diede fiero assalto alla città, sconfisse il nemico e vi entrò vincitore. Sorprese colà lo stesso patriarca Ulrico e dodici canonici del suo seguito, li fece cattivi recandoli in trionfo alla patria.

L’ingresso poscia che fece il doge in Venezia fu splendido quanto la conseguita vittoria e dopo di avere tenuto il patriarca per lungo tempo avvilito, svergognalo ed incerto del suo destino, finalmente gli rese la libertà, a condizione di pagare ogni anno alla repubblica il tributo di un toro e di dodici porci, i quali dovevano essere spediti a Venezia per il giorno del giovedì grasso, anniversario dell’ottenuta vittoria. E la vittoria ed il tributo diedero origine a celebrare ogni anno una festa singolare. Si compiva questa nel modo seguente. Tosto che spediti erano dal patriarca gli animali pattuiti, venivano custoditi nel palazzo ducale fino al dì stabilito. Il giorno innanzi alla festa si erigevano nella sala del Piovego alcuni castelli di tavole rappresentanti le fortezze friulane, raccogliendosi ivi poi il magistrato del Proprio, il quale pronunziava sentenza di morte contro il toro ed i porci. Al corpo dei fabbri, per essersi distinto in quella guerra, spettava tagliare al toro la testa. Per ciò la mattina del giovedì grasso, armati di lance e di scimitarre accorrevano i fabbri al palazzo ducale con alla testa il loro gonfalone e preceduti da strumenti. Ad essi venivano consegnati gli animali, i quali erano, con molto apparato, guidati sulla piazza maggiore, ove alla presenza del doge e della signoria si mettevano a morte. Eseguita la quale, il doge, col suo seguito, portavasi alla detta sala del Piovego, ove innalzati erano quei simulacri di castella, e dato di piglio ad un bastone armato di ferrea punta, aiutato dal popolo accorrente, gli atterrava in modo che più non rimanesse traccia di essi; e ciò per adombrare la vendetta che si sarebbe tratta sopra i castellani feudatari, se mai più avessero favorito le ingiuste pretese dei patriarchi aquileiesi sulla Chiesa di Grado. Questa festa durò, riformata per altro dall’illustre doge Andrea Gritti, fino allo spegnersi della Repubblica.

Non era appena finita l’impresa contro il patriarca di Aquileia, che la sempre turbolenta Zara si rivoltò di nuovo, sia a cagione dello aversi voluto assoggettare l’intera Dalmazia alla supremazia del patriarcato di Grado; o veramente mossa dalle istigazioni di Stefano III, re d’Ungheria; sicché, cacciato il conte Domenico Morosini, figlio del doge Domenico, si diede agli Ungheri.

A reprimere la rotta fede, fu allestita una flotta di trenta galee, sulla quale salì il doge, ma riuscito vano ogni mezzo pacifico per ridurre la città a sommissione, ripatriò; spedendo tosto, al dir dell’Anonimo Altinate, copioso numero di galee e di gatti, sotto il comando dello stesso conte Morosini cacciato dai rivoltosi: il quale, dato l’assalto alla città, valorosamente la espugnò, costringendo gli Ungheri, venuti alla difesa di quella, a fuggire, abbandonando tende e bagaglie. Giurata quindi dai cittadini fedeltà, e tornata la flotta gloriosamente alla patria, ben duecento nobili zaratini vennero al doge, umilmente pregando di dar loro a suo beneplacito un conte che li governasse; per cui fu rieletto a quella carica lo stesso Domenico Morosini.

Furono poi, intorno a questi tempi, statuiti ordinamenti politici e civili nella Dalmazia stessa; per cui veniva, nel 1162, data l’investitura della contea di Veglia a Bartolameo e Guido, figli del precedente conte Doimo Frangipane, coll’obbligo di soddisfare annualmente la somma di trecento bisanti d’oro; di provvedere alla difesa dell’isola; di mantenere a proprie spese, e non dei cittadini, i legati di Venezia; oltre altri minori carichi. Così, nel 1166, ottenne l’altra isola di Arbe di eleggere il proprio conte, presentando però alla nomina del doge quattro tra principali suoi cittadini, o due tra Veneziani, né si accordando nella scelta fra cinque mesi, questa sarebbe nell’ arbitrio del doge. Laonde fu nominato per primo conte Nicolò, figlio del doge Vitale. All’altro figlio del doge stesso, di nome Leonardo, venne conferita la contea di Ossero.

Tali ordinamenti assicurarono la preponderanza dei Veneziani nella Dalmazia; sicché Stefano III, re d’Ungheria, vedendo di non potere ad essi tener fronte, procurò, con tutto l’animo, di renderseli amici; per cui concedeva in sposa a Nicolò, conte d’Arbe, la figlia di re Ladislao II, ed altra principessa ungherese impalmò con Leonardo, conte d’Ossero, anzidetti.

Sennonché le cose d’Italia andavano più sempre intorbidandosi; imperocché, prevalendo, dopo la seconda presa di Milano, la potenza dell’imperator Barbarossa, fuggito papa Alessandro III in Francia, sempre protetto dai Veneziani; questi rimasero esposti alle perpetue molestie dei confinanti, suscitati dall’imperatore stesso ai loro danni, sicché ridotti erano a non potere uscir che per mare. Per la qual cosa strinsero alleanza con l’Augusto d’Oriente Emmanuele, e con Guglielmo, re di Napoli, ambedue interessati di frenar la potenza del Barbarossa; ed in pari tempo si diedero a sparger danaro fra Trivigiani e Padovani ed altri popoli, per indurli a congregarsi unanimi contro di lui. Laonde il Barbarossa stesso, osservando prendere aspetto minaccioso le cose d’Italia, concedette privilegi larghissimi a Genova, Mantova, Ferrara, affine di amicarsele, e quindi si recò in Germania a mettere in piedi esercito nuovo. Allora papa Alessandro tornò in Italia, e col favore di re Guglielmo, rientrato a Roma festosamente, da colà rese grazie ai Veneziani, che dato avevano asilo ai cardinali ed ai vescovi espulsi dagli scismatici dalle loro sedi, e si adoprò, sebbene invano, con tutto sé stesso a ricondur pace alla Chiesa.

A provvedere a tutte bisogne, e ad iniziare la gran lega lombarda, contro Federico, il veneto erario era venuto in basso così, che fu costretta la Repubblica a contrarre un prestito di mille centocinquanta marche d’argento, con alquanti ricchi cittadini, ai quali cedeva in compenso, per undici anni, le rendite del mercato di Rialto, divise in carati, a norma della quantità della somma esborsata. Le rendite poi impegnate al pagamento derivavano da alcuni affini e tasse designate, costituendosi a guarentigia del rimborso il doge ed i suoi successori.

Con questi mezzi, e colla conclusione di nuovi trattati con alquanti principi asiatici, onde estendere più sempre i commerci, ebbe modo la Repubblica di promuovere e sostenere più sempre la lega delle città italiane contro Federico. La quale si strinse prima tra Venezia, Padova, Vicenza, Verona, Treviso, poi, il dì 17 aprile 1167, in Pontida, castello nel territorio di Bergamo, si univano Cremona, Bergamo, Brescia, Mantova e Ferrara, accordandosi unanimi di difendersi e proteggersi l’una l’altra, e promettendo di dar opera tostamente alla riedificazione di Milano, e a restituirvi i loro confratelli, od esuli, o dimoranti nei luoghi vicini.

Difatti fu espulso il podestà imperiale da Milano, si rifabbricarono le mura; poi si sottomise Lodi, devota all’ impero, e si prese il castello di Trezzo. Ma tornato Federico in Italia con forte esercito, diede il guasto alle terre di Brescia e di Bergamo, ed a punire papa Alessandro, si diresse verso l’eterna città. Si ritirava quindi il pontefice a Benevento, intanto che Federico prendeva Roma d’assalto; ed entratovi, per onorare Beatrice sua moglie, coronar si faceva nuovamente imperatore per mano dell’antipapa Pasquale. L’ira di Dio però piombava sul di lui capo; imperocché si svolse fra le milizie alemanne cotal epidemia, che i soldati perivano a mille a mille, non che molti principi e nobili; sicché si sollevò una voce comune di dolore, di scontento, di rimorso, e un desiderio sorse di ritornare alla patria, per cui l’imperatore fu astretto riprendere il cammino di Lombardia; e poste al bando le città ribelli, devastatene le terre, si ridusse di nuovo in Germania.

Prese allora più animo la lega lombarda, e, a difesa dei confini, si erigeva una nuova città, che, ad onore di papa Alessandro III, fu appellata Alessandria. Poi, il dì primo dicembre di 1167, i deputati di Venezia, Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Ferrara, Brescia, Bergamo, Mantova, Cremona, Milano, Lodi, Piacenza, Parma, Modena, Bologna, Novara, Vercelli, Reggio, Asti, Tortona, giurarono difendere queste città e le persone e le terre, che prendessero parte alla lega, contro chiunque volesse far loro guerra o violenza alcuna, imporre maggiori obblighi che non avevano avuto dal tempo di Enrico IV a quello dell’avvenimento al trono di Federico; obbligandosi ad altri patti ancora, valevoli a mantenere la loro concordia ed il ben essere loro.

Né la Repubblica era per ciò solo aggravata, che oltre la peste che infierì in Venezia negli anni 1157, 1161 e 1165, un terribile incendio, accaduto il dì 15 dicembre 1168, siccome nota il Sanudo, arse parecchie contrade, recando desolazione inudita: e forse più che tali sventure la poneva in pensiero le ambiziose mire e la mala fede del greco Augusto. Il quale, agognando il possesso d’Italia, incoraggiò Ancona a torsi da Federico, e l’aiutò nella sua resistenza, spedendo una flotta nell’Adriatico, la quale non riuscì a cosa alcuna; e mandava poi a Venezia ambasciatori, ricordandole l’antica amicizia, i concessi favori; e ciò affine di rendersela propizia al suo intento. Ma i Veneziani si dimostrarono in sulle prime n lui propensi; poi, non convenendo ad essi, che l’impero orientale acquistasse nuovamente forza in Italia, nulla fecero; sicché, sdegnato Emmanuele, eccitò gli Anconetani a correre il golfo pirateggiando. La qual cosa tornò loro funesta; imperocché caddero cattivi i loro navigli, e videro impesi i capitani di quelli. Mostratosi poi apertamente nemico l’Augusto di Oriente, si diede a molestare da prima con infami rappresaglie i veneti legni, e poi inopinatamente piombando con l’oste sua sopra Traù, Ragusi e Spalato, ne devastò quei territori, e pose a ruba quelle infelici città. Giunta la nuova a Venezia, generale ne fu l’indignazione, sicché un grido si sollevò di guerra da ogni parte della città; volonterosamente offrendo tutti, sull’altar della patria, danari, armi, sussidi, persone.

Fu allora divisa la città in sei sestieri, ed ogni sestiere in parrocchie, coll’obbligo a ciascuna di concorrere con un prestito forzato a riparare agli urgenti bisogni. Si impegnava per il rimborso ogni rendita del Comune, pagando il quattro per cento d’ interesse, in due rate annuali, instituendosi la Camera degli imprestigli; ufficio durato fino allo spegnersi della Repubblica.

Con questi mezzi, in cento giorni furono allestite cento galee e venti navi, e su tale flotta poderosissima salì capitano lo stesso doge Vitale Michiel, sciogliendo dal porto il settembre 1171. Si recava tosto ad oppugnare Ragusi, e con Ragusi tornava a devozione Traù; e già aveva incominciato l’assedio di Calcide di Negroponte, quando, per le sollecitudini del greco Augusto, si trattò di pace, ed a cagione del verno imminente la flotta si ridusse a Scio. Colà un’epidemia letale decimò le milizie, sicché, passata a Metelino e quindi a Stalimene, per mutar aria, non rimise per ciò della sua intensità il morbo, che i più strenui guerrieri, i migliori cittadini perivano ingloriosi. Era un inganno di Emmanuele sleale, quello di sollecitare la pace, che mirava soltanto ad acquistar tempo, e far sì che I’ armata veneziana venisse meno, appunto dal morbo. Si disse perfino, e si rapportò da più d’un cronacista, che i Greci avvelenassero le conserve d’acqua potabile. Certo è che tale e tanta si fu la moria, che della sola famiglia Giustiniani, che tutta aveva preso parte alla infausta spedizione, neppur uno tornava, sicché fu d’uopo che il solo rampollo di essa, Nicolò, già monaco, uscisse dal cenobio di San Nicolò del Lido per ammogliarsi. Impalmò Anna Michiel, figlia del doge, e ne ebbe sei maschi e tre femmine; poi, fedele ai suoi voti, tornò alla sua cella; ed il monastero di San Girolamo accolse la moglie; onde tanta pietà valse ad ambedue per essere ascritti nell’albo dei Beati.

Tanti mali mossero le ciurme a tumulto, per cui il doge fu obbligato a tornare a Venezia; ove fu spettacolo veramente miserando il veder quella flotta, in pria si floridissima, giungere menomata grandemente nel numero delle navi e delle genti; e, ciò che più valse, seco recando il germe del morbo letale, che, diffusosi subitamente per la città, fece orrida strage; sicché il popolo, accagionando di tante sciagure il doge, egli, per giustificarsi, raccolse un’assemblea nel palazzo ducale: ma non valendo nulla ad acquetare il tumulto, tentò fuggire per ritirarsi nel monastero di Santo Zaccaria. Sennonché, sopraggiunto da alcuni tra i più disperati, fu ucciso a poca distanza da quello, il dì 27 maggio 1172; venendo quindi tumulato nella chiesa di Santo Zaccaria stesso.

Il breve, che si vede nella sinistra mano del ritratto di questo doge, reca il motto seguente:

IMPERIVM VASTO TRIREMIBVS VNDIQVR MISSIS
VRBIS AQVILEJAE PATRIARCHAM TRADO TRIBVTIS. (1)

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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