Vitale Faliero. Doge XXXII. Anni 1084-1096

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Vitale Faliero. Doge XXXII. Anni 1084-1096

Vitale Faliero, che, come dicemmo, fu l’anima della rivolta, per la quale venne deposto il Selvo, veniva chiamato dal voto popolare al trono, affermando i cronacisti, essere egli, con doni, riuscito al suo intento, per cui sembra che il soprannome che ebbe di Dodoni o De donis, gli fosse da ciò derivato.

Cotesta macchia però seppe cancellare, procurando con splendide azioni, rendersi utile alla patria e caro ai cittadini. E innanzi tratto, spediva, richiesto da Alessio, ambasciatori a Costantinopoli, Andrea Michieli, Domenico Dandolo e Jacopo Aurio od Orio, per trattare intorno gli aiuti da lui domandati contro i Normanni. Prometteva l’Augusto greco, a compenso di essi, di cedere ai Veneziani ogni diritto sulle città dalmate, e di confermare al doge il titolo di duca della Dalmazia goduto dai suoi antecessori, e di conferirgli l’altro di protosebaste. Pare anzi che per ingraziarsi coi nostri, prima ancora che annuissero alla domanda degli implorati soccorsi, Alessio assegnasse al doge una rendita considerevole nelle provincie del suo impero, e donasse ricca somma alle chiese delle venete isole; la quale, per quella di San Marco dovesse essere annuale, aggiungendo a pro di quest’ultima il dono di case e possedimenti in Costantinopoli e in Durazzo.

Accordarono liberamente i Veneziani gli aiuti richiesti, mossi anche dal desiderio di vendicare i torti patiti pochi mesi innanzi. Laonde, allestita in breve una flotta più delle prime poderosa, nella primavera dell’anno 1085 si mossero in cerca di quella del nemico Roberto. La incontrarono infatti tra Corfù e Butrintò, e tostamente assalitala, dopo lunga ed ostinata battaglia la sgominarono, la dispersero, la vinsero così che, poco mancò che la stessa moglie di Roberto Singelgasta, donna di maschio coraggio, non cadesse cattiva. Moltissimi furono i prigionieri che ei fecero, copioso il bottino. Tale vittoria fu decisiva, dappoiché Roberto nulla più intraprese per alquanti mesi, tranne l’assedio che tentò di porre a Cefalonia, ove poco dopo moriva dalla peste, che, introdottasi nel suo esercito, menò orrida strage. La sua morte fu vita per i Greci, dappoiché poterono riavere in breve le terre perdute.

Ottenevano quindi i Veneziani da Alessio innumerevoli doni e privilegi; e nel Crisobolo, o bolla d’oro di lui, riportata nel codice Trevisano, gli esalta grandemente dicendo, come sempre per l’impero avevano incontrato i più gravi pericoli, ed anche recentemente avevano allestito per esso, contro i Normanni, navi di sorprendente grandezza, colle quali avevano ottenuto insigni vittorie sopra lo scellerato Roberto. In conseguenza di ciò egli concedeva ai Veneziani medesimi il libero approdo in tutti i porti del greco impero, nell’Asia e nell’Europa, e particolarmente in Laodicea, in Manestria (ossia Amastri), in Tarso, in Antiochia, in Adramanzia, in Focchia, in Sattalia, in Atene, in Tebe, in Tessalonica, in Silimbria, in Megalopoli, in Abido, in Adrianopoli e nelle isole di Cipro e di Candia, ove particolari ragioni politiche di quell’impero non acconsentivano a straniero veruno il traffico e persino l’approdo. Lo stesso privilegio era loro concesso anche per Corinto, Nauplia, Tenedo, Egina ed al tre isole dell’Arcipelago; ed in tutti questi luoghi erano eglino esentati da qualunque dazio o pedaggio. Oltre d’avere conferito poi al doge il titolo promesso di protosebaste, concesse anche al patriarca di Grado quello d’ipertero, che vale onorevolissimo. E cosa ancora degna di nota, avere il greco Augusto assoggettato allora alla chiesa di San Marco tutti gli Amalfitani dimoranti in Costantinopoli ed in qualunque altro luogo dell’impero, ed avevano fondachi o magazzini o taverne in qual si fosse città della Grecia, obbligandoli al pagamento annuo di tre iperperi per ciascheduno. La soggezione imposta dall’Augusto greco agli Amalfitani verso la Repubblica, trae motivo dal soccorso probabilmente da loro prestato a Roberto.

Stabilita la pace e la prosperità dei commerci, pensava il doge di far consacrare la basilica di San Marco, già compiuta. Volendosi quindi porre in luogo condegno la salma del santo Patrono, si era fatalmente perduta la memoria del luogo ove era stato nascosto al tempo dell’incendio accaduto alla morte di Candiano IV. Non è a dire quale’ tristizia si sparse fra il popolo, quali i parlari che fece, allorché seppe di cotal smarrimento; supponendosi non fossero irrimediabilmente perdute quelle sacre spoglie. Perloché fu comandato generale digiuno per tre giorni; durante i quali, con preci ed opere pie, si implorò dal cielo la rivelazione del pegno prezioso: poi seguiva, il dì 25 giugno dell’anno 1094, una processione magnifica, alla quale concorse il popolo da tutte le isole e terre dello Stato. Nel mentre che stava la folla in orazione raccolta nel tempio, nell’ora che si celebravano i solenni misteri, caddero alcune pietre dal pilastro a destra dell’attuale cappella del Santissimo, e precisamente ove tuttavia si osserva la testa dorata di un angelo, lasciando vedere una cassa marmorea, in cui era chiuso il sospirato deposito. Immensa fu la gioia dei Veneziani, i quali, durante li tre giorni che tennesi esposte quelle sacre ossa, continuarono a concorrere da tutte parti al tempio per venerarle. Quindi il dì otto del seguente mese di ottobre, siccome nota il Sanudo, in cui veniva consacrata la basilica, si riponevano, entro un’urna di marmo, sull’altare primario della cripta, sottoposto all’ara massima della chiesa stessa, ove stettero fino al novello scoprimento, accaduto il dì 6 maggio 1811, rinvenuta essendosi pure rinchiusa, colle sacre ossa, una lamina plumbea, in cui vi erano notato il nome del doge Vitale Faliero, e l’epoca della reposizione, cioè, il di 8 ottobre 1094.

Essendo poi di quel tempo venuto in Italia l’imperatore Enrico IV, giunto a Treviso, il doge spediva a lui tre ambasciatori, affine di ottenere la confermazione degli antichi privilegi. Egli non solo li raffermava, ma spinto dal desiderio di vedere la città di Venezia, e di venerare pur esso le reliquie di San Marco, di quei giorni scoperte, volle portarsi a Rialto, ove fu accolto con tutti i segni d’onore e di magnificenza; e per dimostrare il suo affetto verso il doge, tenne alla sacra fonte una di lui figliuola, di fresco nata, imponendogli nome Enrica, secondo dice il Sanudo.

Poco appresso curava doge Vitale la rifabbrica del castello di Loredo cui le passate guerre e le incursioni dei popoli vicini, avevano ridotto in basso: luogo cotesto di massima importanza per la sicurezza delle lagune, posto com’era, al confine dello Stato, e guardante i canali primari che servivano al passaggio dei Lombardi, Toscani e Romani per venire nelle lagune, e alle venete barche per salire su per l’Adige ed il Po per oggetto di commercio; edera altresì luogo interessante per lo passaggio che di colà facevano i pellegrini che si recavano a Roma. Il Faliero munire lo fece robustamente, onde poter fronteggiare da quel lato qual si fosse nemico, e tutte spese sostenne col proprio, come risulta dal diploma da lui concesso ai Loredesi: documento cotesto di molto rilievo per le cose che dice, per le famiglie che ricorda, e pei titoli che il doge si dà di duca di Dalmazia e Croazia: titoli che non si accordano né colle concessioni ottenute da Alessio, né con la iscrizione posta nel ritratto del doge Ordelaffo Faliero, siccome più avanti vedremo.

Era venuto infrattanto il momento in cui l’Europa universa doveva colle Crociate unirsi, e versarsi tutta in Oriente per liberare il santo Sepolcro; ed i Veneziani, che in quella occasione guadagnarono assai oro nel somministrare navigli ai guerrieri di Cristo, eran0 vicini a passare pur essi in Soria, con poderosissima classe; quando per ossa venne la città da fiero incendio, da bufera impetuosissima, da forte terremoto e da fame crudele; in mezzo alle quali sciagure doge Vitale moriva, non senza essere stato incolpato d’imprevidenza per il manco dei viveri, cagione della fame patita. Veniva sepolto nell’atrio della basilica di San Marco, nel monumento decoroso tuttavia superstite; e lo splendido elogio che vi si legge scolpito, non consuona con quanto narrano gli storici del disgusto da lui destato nel popolo alla sua morte Aveva fatto erigere col proprio la chiesa ad onore del santo del suo nome, Vitale, che rimase consunta nell’incendio accaduto nel 1105, e fu quindi rifabbricata.

Il breve su cui posa la destra mano l’immagine di questo doge dice:

CLARE FIT OCCVLTVM CORPVS MIHI SANCTI MARCI. (1)

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto.  Venezia MDCCCLXI

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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