Palazzo Badoer Partecipazio a San Giovanni in Bragora

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Palazzo Badoer a San Giovanni in Bragora. In "Venezia Monumentale e Pittoresca", Giuseppe Kier editore e Marco Moro (1817-1885) disegnatore, Venezia 1866. Da internetculturale.it

Palazzo Badoer Partecipazio a San Giovanni in Bragora

Quando la città non avea il nome per anco di Venezia, ed era costituita dalle isole reaitine, è fama servisse questo palazzo di residenza al tribuno delle isole gemine; le quali, poco distanti da Olivolo, e cosi nominate per la somiglianza tra loro nella forma e nell’ambito, si popolavano da genti che, fuggite dal ferro dei barbari, occupavano il terreno dei Santi Filippo e Giacomo, San Zaccaria, San Severo e San Giovanni in Bragora. Ciò risulterebbe con sufficienti argomenti, ad onta l’oscurità di quella serie di secoli dalla fondazione della città sino al secolo X; poichè si perdette ogni memoria sui tribuni, a cagione dell’incendio, appiccatosi il 976 nel palazzo Ducale, sotto Candiano IV. Inoltre le prigioni sotterranee, che quivi ancora si osservano, e il nome di morte alla calle, farebbero altra prova della residenza dei tribuni, constando del loro diritto sovrano, criminale e civile, senza appello a quel corpo universale che aveva quasi idea e spirito di nazione.

I Badoeri Participazi infatti, secondo è tradizione, per centinaia di anni sostennero il tribunato. Un Marco Badoer, di Sant’Antonin, componeva l’estimo della fazione, con altri rami del suo stipite, e il Sansovino primi ce li addita a fabbricare quel tempio, da ben lunga epoca stanziato avendo nei dintorni della parrocchia. È quindi interessante questo palazzo, per le prime memorie della città, a cui risale. Vetusta è la conformazione della pianta interna, assai capace, distinta in tre piani, e con copia di stanze. Poca è l’euritmia del prospetto sul campo, e la porta d’ingresso vedesi spostata dal centro, e in relazione soltanto all’insieme della facciata, quando dovrebbe esserlo invece alla parte media della decorazione. Il primo piano ha cinque arcate, con quattro colonne, una di marmo veronese, le altre di marmo bianco, sormontate da tre graziose testine di vivo, da fregi e tondi negli interstizi, che avranno contenuto dei pezzi di porfido, al pari dei due unici, che ancora rimangono intatti. Grave è anche lo sconcio di quello spazio tra la quarta e quinta arcata, che si stacca dalle altre unite; e la ragione si conosce, penetrandosi nella sala, per la necessità di darsi luce diretta, coll’apertura di quell’arcata, in faccia alla scala, che è lunga e scoscesa, e il di cui peristilio uguaglia quello del palazzo Foscari. La quale scala che ad onta di quella risorsa di luce, non è ancora molto chiara, se poi ne fosse priva, risulterebbe da un capo all’altro oscurissima. È però scusabile l’architetto, per aver dovuto, in questo caso, all’ordine anteporre l’utilità, poichè era massima di non erigersi mai le scale, con pregiudizio della gran sala, per il fasto diplomatico, e quindi si facevano sorgere da un lato, acciò essa nell’ingresso apparisse nella sua integrità. La scala è divisa in tre rami, e mette ad altra sala, che è di egual proporzione, e per certi rispetti migliore anzi della sottoposta. Il finestrone a poggioli, che fa angolo alla facciata, tra il campo e il Rio Terrà, accenna all’epoca del medio evo. Vi hanno tracce visibili, che più volte fu posto mano al restauro; la balaustrata, per esempio del poggiolo, nel piano nobile, figura del seicento; indicano le riforme un’arcata chiusa e dipinta, e i fori di balcone ostruiti, senza certe norme, configurati nel piano ultimo, il quale, per l’altezza dominante sul campo, offre un punto prospettico e pittoresco.

La riva d’approdo era sul canale, detto Badoaro, interrato nel 1805, e certamente l’arcata stava ove sussiste adesso un vaso, rimasto isolato, che deve avervi servito di decorazione. Le faccie di altinelle, o pietre cotte di Altino, ben connesse e cementate, spiccavano un tempo per begli affreschi, nel genere degli ornati; la cornice superiore del prospetto è tutta lavorata a punta di diamante. Nell’interno si vedevano ricche decorazioni, travature dorate, e con intagli perfino nella vasta e ben conformata cucina.

Quando la fabbrica era ridotta ad una deplorabile condizione di abbandono e rovina, e in mancanza d’imposte accessibile agli acquazzoni, terminavano le intemperie di farvi mal governo, scorgemmo per entro dei camini pregevoli. E ci ricorda, che sopra uno di quelli stava un bassorilievo di marmo, rappresentante il coraggio di Muzio Scevola, che dinanzi al re Porsenna arresta la destra sul braciere ardente, e al crepitar delle carni sul fuoco, vince col terrore l’opinion dei Romani sulla mal conosciuta sua fede.

Un grande restauro, e troppo necessario, facevasi eseguire a questa fabbrica dal fu ingegnere proprietario, sig. march. Saibante, che si rese benemerito, salvando uno degli antichi monumenti per la storia e per l’arte. Ora è proprietà dei di lui figli ingegneri Lorenzo ed Ignazio. I Saibante originario del Tiralo italiano, e verso il 1400 passati a Verona, si distinsero nelle armi e nelle lettere. Da Augusto III re di Polonia furono insigniti del marchesato; titolo riconosciuto dalla Repubblica, presso alla quale figurò ambasciatore Andrea, essendo Doge un Cornaro. Di questa casa è Bianca Laura, Saibante Vannetti, onor del suo sesso, già socia dell’Accademia degli Agiati di Rovereto, di cui si pubblicarono dall’ab. Meloni più lettere e discorsi nella Raccolta ferrarese di opuscoli scientifici e letterari di autori italiani, nel 1784, per il Colletti.

La decorazione del prospetto ha lo stemma in marmo della casa fondatrice, che vedemmo anche nell’atrio sul pozzo. I Badoeri Participazi originarono dalla gente Azia Romana, donde il cognome participes Atii, o della dignità di Roma e Venezia. Nacquero in Eraclea, che distava cinque miglia dal mare, tra i fiumi Piave e Livenza, e fu sede per quarantasette anni dei Dogi, avendo cessato di essere il centro del governo della patria, quando fu desolata dalle civili rivolte. Era una città, ricca di edifici e di marmi, e bene osserva il Filiasi, che gli scavi farebbero conoscere, quale fosse tra i veneziani lo stato delle arti nei primi secoli. I Participazi, in più di due età, ebbero nove volte il principato, che pareva quasi ereditario in famiglia, e anzi si tentò la parte, che non si potesse nominare altro Doge fuori della casa. Fondarono essi San Lorenzo, San Severo, e il monastero, con la chiesa, di San Zaccaria, per cui Leone V mandava architetti, e dove stanno le tombe di ben otto principi della patria. Angelo salvò Venezia nella guerra di Pipino, che poteva essere micidiale, poichè l’oste colle sue truppe, assalito Brondolo, e fatte cadere Chioggia, Pellestrina ed Albiola, poco lungi da Malamocco, stava per portar l’eccidio a Rialto.

Allora le nascenti moli cominciavano a specchiarsi nell’acque; avveniva la dilatazione delle sessanta isolette, l’unione loro con ponti di legno sui canali, che le separavano, l’interramento delle tombe e barene, l’erezione di templi e palazzi, e del primo palazzo ducale. Allora l’idea dei consiglieri si toglieva dai tribuni, assessori del Doge, dalle concioni annuali l’altra idea del Senato, e si può dire che dai Badoeri Participazi fosse abbozzata Venezia, nella materiale sua forma, nel suo primitivo governo, nelle primizie della sua grandezza. Anzi diremo mercè i Participazi iniziata la gloria della sua futura potenza, nella prima vittoria, contro quei nemici che, allo spegnersi di una Repubblica, non mai, per il volgere di tanti secoli, invasa da dominazioni straniere, dovevano alla fine compiere l’opera, sotto effimere forme repubblicane, e saccheggiarne con più lauto bottino i tesori, senza poterne però sfrondare le palme. (1)

PALAZZO BADOER, in the Campo San Giovanni in Bragola. A magnificent example of the fourteenth century Gothic, circa 1310-1320, anterior to the Ducal Palace, and showing beautiful ranges of the fifth order window, with fragments of the original balconies, and the usual lateral window larger than any of the rest. In the centre of its arcade on the first floor is the inlaid ornament drawn in Plate VIII. Vol. I. The fresco painting on the walls is of later date; and I believe the heads which form the finials have been inserted afterwards also, the original windows having been pure fifth order. (2)

(1) GIANJACOPO FONTANA. Cento palazzi fra i più celebri di Venezia (Premiato Stabilimento Tipografico di P.Naratovich. 1865).

(2) JOHN RUSKIN. The Stones of Venice. Vol. III. (1851)

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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