Un’ambasciata turca

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Giovanni Mansueti, Paris Bordon. Tre episodi della vita di San Marco. Gallerie dell'Accademia Venezia

Un’ambasciata turca

Morto il sultano turco Baiezid e successogli nell’impero il figlio Selim, questi mandò subito una numerosa ambascieria a Venezia con una sua lettera autografa annunciando al doge Leonardo Loredan il suo innalzamento al trono.

Il giorno ultimo del mese di gennaio 1514 giunse alla Signoria la notizia che l’ambasciatore era arrivata a Chioggia e che da quell’isola sarebbe partito per la Dominante nel pomeriggio, tanto che il Collegio mandò subito al Lido i peatoni ducali e venti patrizi, tra cui sier Polo Valaresso quondam sier Gabriele per il ricevere il rappresentante del Sultano. E così nell’avanzato pomeriggio di quel giorno “l’orator dil Turco” fu accompagnato con il suo corteo di patrizi “a la Zueca dove smontoe a ca’ Malipiero“, palazzo che s’innalzava sulla fondamenta di San Giacomo, oggi scomparso “et che li era sta preparado con gran lusso per l’oficio di le Rason vechie“.

L’ambasciatore si chiamava Alì Bei, era dragomanno del Sultano e suo confidente, “homo di età d’anni cinquanta, sa parlar talian benissimo, ma parla per interprete per reputation, ha con lui turchi venti, una fusta et uno brigatin“.

Il primo febbraio messer Alì ricevuto dalla Signoria, il doge aveva impartito l’ordine che tutti i patrizi del Collegio fossero vestiti di seta paonazza o scalatta, e il principe stesso indossò una veste di velluto cremisi con mantello di panno d’oro “che fo bel veder al Colegio in tanto ordine”.

Quaranta patrizi furono mandati alla Giudecca con i peatoni ducali sfarzosamente addobati, e ad un’ora dopo terza l’ambascieria ottomana sbarcava al Molo della Piazzetta dove si era raccolta gran quantità di gente per vederla passare “Et essa passò con bel ordine: prima alcuni di soi turchi con fesse in cao (col fezin capo) l’uno drio l’altro con li presenti in mano quali fono quindise peze di panno d’oro, cremesin, turchesco, paonazo et altri colori, diese peze de panno de seda et tre peze de zambeloti fini scarlate e negre; poi un turco portava una fazuol rosso con oro turchesco et un altro uno tapedo grando et bello“. Veniva alfine l’oratore vestito di drappo d’oro “con la lettera del Signor Turco rivolta in uno fazoleto bianco tessudo di arzento” e poi a due a due seguivano i quaranta patrizi nelle loro toghe di gala dalle maniche ampie ornate di zibellino.

All’entrar dell’ambasciatore nella sala del Consiglio, il doge e la Signoria si alzarono dai loro seggi, il Serenissimo abbracciò messer Bei, mentre si avanzava domino Todaro Paleologo, interprete della Repubblica, che tradusse all’alto consesso il discorso del Turco tutto di belle parole, di amicizia fedele, di sentimenti gentili.

Venne presentata la lettera del Sultano e furono offerti i doni turcheschi, che vennero dal Serenissimo, appena finita l’assemblea, divisi tra i patrizi in Collegio. Per il mantenimento dell’ambasceria furono decretati trenta ducati al giorno e si mandarono al palazzo Malipiero barche ricolme di derrate: pesce, carne, farina, frutta, dolci, vino, olio in tale quantità che il pianterreno della casa ne fu tutto ingombro.

L’ambasciatore in quei giorni, accompagnato da sier Piero Giustinian, “fradelo del bailo Zuane qual era a Costantinopoli, et, con licentia di la Signoria, li fa compagnia” visitò quasi tutta la città: ebbe una grande colazione all’Arsenale, un pranzo sontuoso in Palazzo Ducale dato dal principe e alcune cene nei palazzi patrizi.

Ai nobili che lo attorniavano egli espresse il desiderio di voler comperare “un diamante pontà per ducati mille, un rubin bello, alcuni panni di seda, do orinali de crestallo per il gran Bassà et altre cose“, e sier Polo Valaresso, “qual di statura et effige someia tutto esso orator” ne tenne parola in Collegio e la Signoria, con la sua solita generosità, dopo due giorni fece trovare nelle stanze dell’ambasciatore tutte le robe desiderate.

Il Consiglio dei Dieci gli regalò tre vesti “et uno bazil d’arzento con ducati cinquecento“, e l’ambasciatore ringraziando affermò in italiano “che il suo Signor vol aiutar questo Stado et non lo lasserà perir“, Alì Bei partiva da Venezia il 25 febbraio per Ragusa con la nave “Trona” lasciando nei Veneziani un buon ricordo della sua permanenza per quanto un po’ onerosa per le finanze della Serenissima.

Venezia nel 1514 era assalita da quasi tutta l’Europa cristiana e, cosa curiosa, la sola Turchia, la sua naturale nemica, in quel momento le giurava amicizia. (1)

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 27 marzo 1932

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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