Palazzo Memmo Martinengo dalle Palle Mandelli a San Marcuola

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Palazzo Memmo Martinengo dalle Palle Mandelli a San Marcuola

Palazzo Memmo Martinengo dalle Palle Mandelli a San Marcuola

Svolgendo le cronache, si attinge la sicura notizia, che i Memmo, tribuni di Altino, tralci in origine della gente di Roma, e già celebri in quella Repubblica, onde ne parlano Cicerone e Virgilio, venuti poi sulle Lagune nei primordi della fondazione di Venezia, uno dei quali entrava fra gli elettori del primo Doge, avevano l’antichissima abitazione nella contrada di San Marcuola. E ne abbiamo gran prova fra le altre nel fatto che, salito sul trono ducale Tribuno Memmo, doviziosissimo Principe, quegli che ai monaci Benedettini donava l’isola di San Giorgio Maggiore, nella seconda metà del secolo X, quando non era ancora compito il ducale palazzo, che rimase distrutto dall’incendio nella popolare sommossa contro il famigerato Candiano IV, dovette dimorare nella sua casa a San Marcuola. Così, per l’egual motivo, era toccato pochi anni innanzi a San Pietro Orseolo rimanere nella propria ai Santi Filippo e Giacomo. Quale fosse poi il preciso sito della casa dominicale degli antichi Memmo, non ci è dato in si enorme distanza di epoche verificarlo.

Le Case Memmo erano bensì parecchie, e due se ne ricordano per tradizione nella stessa parrocchia. L’una era nell’area di questo palazzo, che descriviamo, e venne in esso innestata ai tempi nostri, per acquisto fattone dagli ascendenti. L’altra stava in prossimità all’abitazione dei Calergi, e nella descrizione del palazzo Vendramin la vedemmo smantellala, per le ragioni politiche ivi discorse, nella cui area si fece più tardi verdeggiare un giardino. D’altronde, se ancor di prove si abbisognasse, ne avremmo una ben solenne nella iscrizione in marmo, entro la chiesa parrocchiale, sulla parete alla destra del pulpito, di fronte alla porta verso il traghetto. Poichè vi si legge che: proceres e Memmia gente et Lupaniza (illam) restituerunt quum ingenti terraemotu dirutam, alque igne absumptam vetuslate dilaberetur.

Certamente, se veniva intermessa in qualche epoca la dimora, doveva risuscitare un giorno in qualche ramo della casa il desiderio di ristabilire la magione, che fu culla dei più remoti ascendenti, i quali più fiate ebbero la gloria della corona ducale. E infatti i catasti di famiglia manifestano seguita a tale scopo una permuta il 24 marzo 1640, per parte dei fratelli Pietro e Andrea Memmo del fu Bernardo, di una loro casa a San Giovanni in Bragora, in calle della Pietà, verso certo onere in un decennio affrancabile, con istrumento del notaio veneto Francesco Clario. E ricevevano invece i Memmo in proprietà da Donna Chiara Valvason, vedova di Francesco Morosini cinque caratti e un terzo di caratto di casa, e parte dei mezzadi o casa a San Marcuola come sta scritto, verso il canal grande.

Venuti così a stanziare nell’acquistato stabile, che vediamo a quali proporzioni fosse allora ristretto, procedevano in appresso a nuovi acquisti, ed anche a nuove permute, allo scopo di ampliare il corpo della fabbrica e di erigere una facciata, la quale se non risulta della maggior latitudine, in lunghezza per altro si estende da mezzodì a tramontana, e in altezza poi ora si estolle per cinque piani, senza il piano terreno e la soffitta. L’architettura era nello stadio a quel tempo della decadenza nella 3.a e 4.a età, e quindi poca è la perdita, se non ci resta il nome di chi disegnava la fabbrica, e se pur risultasse ignoto alla storia dell’arte. Decorato è il prospetto con verone e finestre a tabernacolo; lo sormonta un ampio terrazzo, e sta una torricella, respiciente il canal grande, di cui toccheremo più innanzi.

È sommo onore di questo edificio, che nascesse nei suoi recinti Andrea Memmo, correndo l’anno l729. Poiché di potente ingegno e di cognizione profonda degli uomini, di forti ed alti propositi, e di politica maestria, si segnalò nel Dogado di Paolo Renier, per cariche e legazioni in tutti i ministeri più eccelsi della Repubblica, avendo figurato Senatore, Riformatore dello Studio di Padova, Ambasciatore a Roma, Bailo a Costantinopoli, Cavaliere della Stola d’oro e Procurator di San Marco. Allievo egli del padre Lodoli, a cui suggeriva di scrivere con novità e sapienza sull’architettura ai tempi del Milizia, e i cui dettati in vari modi illustrava, lasciò prove, in più scritti alla luce, anche della coltura sua nelle lettere e nelle arti. E di lui si custodisce nel Museo Correr l’autografo epistolario, che è altresì interessante per i franchi giudizi sui fatti e sulle persone della sua epoca. Sarebbe poi un portar acqua al mare e legne al bosco il ricordare il merito suo, quando era a Padova Provveditore, per avere fatto sorgere in quella città, in un giro di sole, il gran Prato che si chiama ancora della Valle, perché rimanga in tal nome la memoria del padule stagnante che vi preesisteva, e da cui tratto fu per incanto. La prospettiva della nuova piazza, dietro la prima concetta idea, si vede in un gran quadro, con illustrazioni copiose esattissime in questo palazzo. E vi si adocchia quel recinto, ridotto salubre e amenissimo, alla foggia dei portici di Atene e di Roma, che per le infinite cure del Memmo, converso in anfiteatro, si abbelliva all’intorno di statue e di obelischi, quasi Areopago, in onore di celeberrimi Italiani. Fra i quali la gratitudine del Senato, vivente il Memmo, collocava la statua d’altro suo antenato, e lui morto, faceva collocare la sua, come dava il suo nome ad uno dei ponti.

Nell’anno 1775, seguendo l’elezione di Andrea Memmo alla dignità di Procurator di San Marco, si apprestava per le feste, che erano in uso a Venezia, in simile congiuntura solenne l’appartamento del piano nobile di questo palazzo, quale si conserva tuttora, di stile che si chiama a rococò. Fra le parecchie stanze di esso se ne vedono alcune rivestite di damasco rosso e di amuer verde; una fra tutte più grande, di seta cinese a fogliami ed uccelli; una più piccola di raso pure della Cina. Il vasto plafone della sala di ricevimento è dipinto a fresco, e costrutto a comparti, ad imitazione del soppalco nella grande aula superiore dell’Accademia nostra di belle arti. In ognuno dei quali compartimenti si dipinse un uccello sopra una pianta, dall’uccello prediletta, e si osserva la curiosità, che in tanta serie di volatili e vegetabili, sparsi nel gran campo, per quanto minutamente si indaghi, non si discernono eguali tra loro due uccelli e due piante. Il pittore trasse già quei tipi dalla storia naturale del Buffon, e rese così sensibile il fatto, che pur nella creazione si ripete, di quelle differenze infinite, meravigliose, che sono la più rara singolarità della natura. La sala del 1. piano a cui mette lo scalone, si distingue per la sua prospettiva, dipinta dal Gaspari, con figure di Vincenzo Scozia, rappresentando una galleria di statue di antichi illustri, oratori, poeti e filosofi, il nome di ognuno dei quali è scritto sul piedistallo. Le belle arti sfoggiano nei recinti molte loro ricchezze, sì nei quadri di buoni autori, anche in legno, in rame ed in pietra, come nei busti in marmo, nei vasellami in sorte di porcellana, di biscuit d’Inghilterra, in vari oggetti di antichità, fra i quali un avorio rappresentante un baccanale, di Bortolammeo Coriolano, scultor bolognese, negli specchi a profusione, e in ben sette lampadari di cristallo, cinque dei quali maggiori e magnifici brillantati.

Avvenuto in seguito il maritaggio della contessa Paolina, figlia al detto Procuratore Andrea Memmo, col conte Luigi Martinengo Dalle Palle, si dava questo palazzo in pagamento dì parte della dote, per ducati trentasettemila e ben altri diciottomila se ne dispendiavano dai Martinengo, per renderlo più ricco ancora e più splendido. Poiché prima di fissarvi il domicilio lo innalzavano di un piano; vi costruivano il pavimento della terrazza, con grandiosi stellari di Verona, e balaustrate di pietra istriana; contornavano varie porte e finestre del quarto piano di marmo di Carrara. I lavori della torricella si facevano eseguire più tardi nel 1830, dal conte Venceslao, a cura del quale vi si ripose l’orologio, che aveva appartenuto al collegio di San Michele di Murano, per cui abbiamo la singolarità che questo palazzo, di confronto a tutti gli edifici di tal genere in Venezia può far pompa di un orologio pubblico a doppia mostra sul Canal grande.

Non peccherebbe di enfasi certamente chi asserisse, che descriver le imprese dell’antica casa Martinengo sia per lo storico un imbarazzo, e ben da taluno si avvisava, che per dare un ordine alla ricca materia di tanti meriti, fosse opportuno un dizionario alfabetico. Ci limiteremo però ad accennare ad alcuni fatti principali per sommi capi. Primo dello stipite si riconosce Tebaldo nel principio del secolo X, l’amore di Ottone I, che lo creava suo vicario imperiale, e gli donava ben quindici castella nei territori di Brescia e Bergamo, dalla prima delle quali città sono i Martinengo oriundi. Lotaringo II, figlio di Oprando II, Podestà in Genova, sedò con gran valore Ventimiglia, ribellatasi ai Genovesi. Bartolommeo, conte di Villachiara, già governator di Cremona, veniva trascelto da Francesco II Duca di Milano, a generale di tutte le città di Lombardia oltre Po. Quattro linee del lignaggio si aggregavano al veneto patriziato per sussidi ingenti largiti alla patria, e il ramo principale lo era fin dal 24 dicembre 1448. Più tardi il Doge Foscarini confermava le investiture feudali della casa. Né si erra dell’ammettere, che i Martinengo sortissero, a cosi dire, ereditaria l’inclinazione alle armi, poiché dalla storia si raccolgono prove di valore in tal copia, che basterebbero ad illustrare una città, meglio che una casa privata. Infatti un Vittore apprese l’arte militare nel 1499 da Nicolò Orsino conte di Pitigliano, e si distinse nella guerra di Ghiaraddada, e pel il conquisto di Cremona e nella lega di Cambray. Girolamo, combattendo contro i Turchi, salvava Zara ed altri luoghi della Dalmazia al dominio veneto, e aggiungeva nelle fortificazioni di Candia un bastione, che assunse il suo nome, e valse un secolo dopo, a sostener l’onore di quella eroica resistenza, che diede tanta fama alla Repubblica. Di Giovanni generalissimo inviato a rivedere tutte le fortificazioni dello Stato Veneto, si leggono i pareri fra i codici dell’archivio di famiglia. Un Nestore fu guerriero e storico, e descrisse l’assedio di Cipro, a cui dal principio al fine si trovava presente; il quale diario interessante sta nell’Archivio pubblico generale ai Frari. Chi non ricorda Luigi, che ebbe comune il destino e la gloria col nostro Attilio Regolo, Marc’Antonio Bragadin martire della sua fede alla patria?

A dir breve, i Martinengo, dei quali cento e più ritratti si possiedono in questo palazzo, furono per senno e per valore richiesti dai potentati Italiani, vinsero piazze e fortezze, sacrificarono sangue e sostanze per la patria, ed ottennero titoli di ogni genere e privilegi da Principi e Imperatori; le corrispondenze coi quali copiose e ragguardevoli si contengono nell’ archivio del loro grandioso palazzo di Brescia, in tre capaci sale, fra pergamene che risalgono al 968; del quale archivio è parola nella Venezia e sue lagune. Una però fra le glorie della casa fu il conte Francesco, generale di cavalleria e mastro di campo, gran Cordone dell’Ordine della Ss. Annunziata, guerriero di gran nome fra i più valenti capitani. Egli ambizioso di prestare i propri servigi a quella Dinastia di guerrieri, illustre ormai da otto secoli di nobili tradizioni, militò sotto i vessilli di Savoia, cooperando alla grandezza del Piemonte e dell’Italia, e conquistava città e provincie, chiamato poi ai servigi della Repubblica. Si vede nel palazzo di Brescia la equestre armatura, che si vuole a lui donata dal Duca Emanuele Filiberto, novello fondatore della monarchia sabauda e amico di Venezia, che considerava ben a ragione, come scrive il Cibrario, qual baluardo d’Italia.

È opera preziosa d’arte, di cui si pubblicavano in Brescia nel 186l illustrazioni e disegni, degna di figurare nella Regia Galleria di armature e di armi antiche e moderne in Torino. Discendeva il conte Francesco da Bortolammeo Colleoni, il miglior tattico del suo secolo, che per venti e più anni, attenuto il sacramento di fede, protesse l’onore, e accrebbe la gloria del nome veneto. E noi, in faccia all’equestre monumento che la Repubblica, al quanto ritrosa in fatto di simili dimostrazioni pubbliche, assentiva pure gli venisse eretto, pesiamo veramente colle bilance dell’oro il suo merito, per sceverarlo a termini di giustizia, e per non porsi in contraddizione colla storia, da quella serie di capitani terrestri, che furono così fatali al reggimento della Repubblica. Poiché il Colleoni è una appunto di quelle onorate eccezioni, che il ch. conte Girolamo Dandolo, convenendo per coscienza nel nostro avviso, ammette fra quei duci nella sua dottissima narrazione sul Carmagnola; ciocché ci gode l’animo di notare a difesa così di un parente cospicuo dei Martinengo. E continuando l’assunto, non taceremo di un Venceslao, senatore e consigliere degli ultimi tempi della Repubblica, di animo sì rimesso, da aver rifiutato la carica per tre volte di rappresentante a Padova, pagando piuttosto le gravose multe, e perdendo così la stola di Procuratore, e forse il principato, che poteva la famiglia a corona di meriti conseguire. Né possiamo ricordare un Paolo Martinengo, che fu sepolto il 1769 nella chiesa di Santa Maria Formosa, senza deplorare l’infelice consiglio di asportarsi da quel tempio nell’ultima rifabbrica, lapidi e monumenti, fra i quali si pertica anche l’iscrizione in marmo, sotto il pulpito, che lo dava questo Procurator benemerito, pietate et charitate eximius.

In queste soglie cessava la vita la contessa Paolina, donna pia e limosiniera, di acuto ingegno, tipo di bontà e di tutte quelle virtù, che mai fiorir possano in cristiana matrona, al bello ed al buono come essa educata. È di lei degno figlio l’assennato ed integerrimo cavaliere conte Venceslao, attuale proprietario di questo edificio, che vi abita colla famiglia.

In questo palazzo sta una collezione di cento e più quadri di autori insigni, fra i quali primeggiano Tiziano, Tintoretto, Giorgione, lo Zuccherelli, Turchi detto l’Orbetto, il Longhi, il Piazzetta, e fiamminghi, e della scuola ferrarese. È di Angelica Haufmann il ritratto del Procuratore Andrea Memmo morto nel 1793, quattro soli anni avanti l’infando eccidio della sua patria diletta, e questa immagine si conserva con amor religioso nel palazzo, di cui, non meno che della patria, fu egli veramente gloria e speldore. (1)

(1) GIANJACOPO FONTANA. Cento palazzi fra i più celebri di Venezia (Premiato Stabilimento Tipografico di P.Naratovich. 1865).

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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