La Guerra della Lega di Cambrai (1508-1516). XI parte

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Il papa Giulio II alla Mirandola

La Guerra della Lega di Cambrai (1508-1516). XI parte

Il papa entra a Bologna e va all’assedio della Mirandola

Continuava la guerra di Ferrara, ed il papa per viemeglio spingerla e dirigerla si era recato a Bologna, quando con rapida ed inattesa mossa il Chaumont gli fu alle spalle, ed estremo era il pericolo della città. Giulio, benché malato, era il solo che non si perdesse di coraggio, fece raccogliere sulla piazza tutti quelli che volevano per lui combattere, vide con gioia sfilare sotto i suoi occhi quindicimila pedoni e cinque mila cavalli, ed egli dalla finestra li benedisse e già si teneva sicuro della vittoria, ma ben presto si conobbe che quella era stata una vana dimostrazione e che pochi veramente erano disposti ad uscire contro al nemico; i cortigiani erano atterriti, gli ambasciatori dell’imperatore, del re Cattolico, dell’Inghilterra esortavano a trattare, e il papa mostrando pur alfine di piegarsi domandava ed otteneva un salvacondotto per il conte Francesco Pico della Mirandola da lui incaricato dell’accordo. Chiedeva il Chaumont che il papa assolvesse dalle censure il duca Alfonso e i Bentivoglio, antichi signori di Bologna, ai quali si restituissero anche i beni, con promessa però di tenersi almeno ottanta miglia distanti da Bologna; che fossero rimesse nel giudizio d’arbitri le contese tra il papa e il duca di Ferrara; che Modena di cui il papa erasi impadronito, fosse depositata nelle mani dell’imperatore; fossero per sei mesi sospese le ostilità, ritenendo ciascuno le terre che possedeva.

Dure condizioni parer dovevano queste al papa, il quale sempre sperando nel soccorso dei Veneziani tergiversava, finché effettivamente entrato in Bologna Chiappino Vitelli con seicento cavalleggeri veneziani e con una squadra di cavalli turchi, riprese la solita audacia e più non volle udir parlare di trattative. Altri rinforzi si attendevano di momento in momento e il Chaumont fu costretto a ritirarsi; le genti veneziane e pontificie si congiungevano a Modena; Sassuolo fu preso; l’assedio fu posto, di volere del papa, alla Mirandola, ove la vedova di Lodovico Pico figliuola di Gian Jacopo Triulzio per comando del padre aveva fatto di quella città una piazza d’armi francese.

Con unico esempio di un papa, volle Giulio assistere in persona a quell’assedio e vi si fece trasportare in lettiga da Bologna. Alloggiò nella casa di un contadino distante solo due tiri di balestra dalle mura, donde, benché esposto all’ artiglieria nemica, dava ordini, sollecitava, presiedeva ai lavori ossidionali e al piantar delle batterie, scorreva il campo, incoraggiava, puniva, faceva egli pontefice, vecchio ed infermo, le funzioni tutte di giovane e valente capitano. La fitta neve che cadeva, l’aspro freddo che agghiacciava le fosse della Mirandola aprirono il passo alle truppe papali per giungere fino alla breccia, ed Alessandro Trivulzio che era alla difesa della piazza, si vide costretto a capitolare il 20 gennaio 1511. Il vecchio pontefice nella sua contentezza non potendo pur aspettare che sgomberate fossero ed aperte le porte, entrò nell’acquistata città salendo per una scala sulla breccia e ne diede poi il possesso al conte Giovanni Francesco Pico suo fedele e nemico del defunto conte Lodovico.

Non ebbe esito cosi felice un tentativo fatto dalle truppe papali e dai Veneziani per impadronirsi di una bastia sul basso Po, onde impedire il trasporto dei viveri a Ferrara, poiché assalili alla sprovveduta dal duca Alfonso ne ebbero tale sconfitta, che convenne loro deporre il pensiero dell’assedio di Ferrara.

Speranze di pace

Parve un momento risorgere bella speranza di pace, poiché se da un canto le armi papali e veneziane, non ostante i riportati vantaggi, mal potevano esser atte a cacciare del tutto tanti nemici e liberare l’Italia, poco profitto pur vi facevano i Francesi per le discordie soprattutto tra il Chaumont e il Trivulzio, e meno frutto vi raccoglieva Massimiliano mancante sempre di danaro e mal sostenuto dalla dieta germanica. Fu concertato un congresso a Mantova ove avevano ad intervenire insieme con Matteo Lang vescovo di Gurk, segretario intimo di Massimiliano, gli ambasciatori di Francia, di Aragona, del papa e dei Veneziani. Questi avevano sempre mantenute vive le loro pratiche con l’imperatore. Proponeva la Repubblica di far con lui l’impresa di Milano per cacciare i Francesi, quando egli acconsentisse prima di ogni altra cosa a regolare con essa i suoi rapporti e la faccenda dell’investitura, disposta essendo a riconoscere da lui i suoi possedimenti di terraferma e pagargli censo, a patto però di riavere Vicenza e Verona, poiché lasciandogli queste ne verrebbe motivo continuo di diffidenza dalle due parti, che i Francesi colle solite loro arti s’ingegnerebbero di sempre più accendere, e inoltre come passerebbe la gente veneziana sul Milanese, non essendo Verona in loro potere? Perciò si raccomandava caldamente all’oratore a Roma volesse insistere su questo punto e conseguirne l’ effetto. Era però impossibile venire ad un accomodamento. Nel marzo del 1511 si recava a Mantova il vescovo Gurceuse con D. Pedro d’Urrea ambasciatore del re d’Aragona presso l’ imperatore, e pochi giorni dopo vi arrivavano il vescovo di Parigi, e Girolamo di Vich da Valenza ambasciatori dello stesso re d’Aragona. Il Lang si recò incontro al papa che trovò a Bologna, e fu ricevuto con pompa principesca. Egli assumeva il titolo di luogotenente dell’imperatore in Italia, ma d’indole altera ed arrogante era facile prevedere che invano si sarebbe attesa da lui la pace. Difatti ammesso alla presenza del papa in pieno concistoro, egli disse francamente essere mandato dall’imperatore in Italia, perché Massimiliano preferiva riacquistare ciò che gli apparteneva piuttosto pei mezzi della pace che della guerra, ma che prima di tutto voleva dai Veneziani pieno ed assoluta restituzione di tutto quanto essi avevano usurpato o dal territorio dell’ impero o dai domini della casa d’Austria. Tale pretensione e i modi suoi superbi ed insolenti irritarono più che mai il papa, onde sospettandosi che tali modi usasse il Lang perché d’intelligenza coi Francesi, Giulio più che mai irritato contro di questi, specialmente a causa del Concilio di Tours, emanò contro gli eretici la famosa Bolla: In coena Domini, nominando come incorsi nella scomunica Alfonso d’ Este, Gian Jacopo Trivulzio, i magistrati di Milano e delle altre città di Lombardia che servivano al re nel riscuotere le imposte che da quel monarca venivano adoperate contro la Chiesa, includendovi indirettamente lo stesso re Luigi XII a causa delle decisioni del Concilio di Tours. Perciò il Gurgense si partiva il 27 aprile da Bologna senza aver nulla concluso, e si riprendevano le ostilità.

Che svaniscono per le esagerate pretensioni dell’imperatore

Era intanto morto il Chaumont, e il comando generale dell’ esercito francese era stato assunto dal Trivulzio. Già presa Concordia e passato il Tanaro, egli si avanzava, soccorso anche da genti tedesche uscite da Verona, sotto il comando di Giorgio Frundsberg, minacciando Bologna. Giulio si avvicinò in persona all’esercito per incorarlo, ma udendo dell’ avanzamento del Trivulzio, con insolita viltà, raccomandata Bologna alla fedeltà degli abitanti (21 maggio 1511), andò a rinchiudersi a Ravenna, e quella città, abbandonata anche dal legato cardinale di Pavia, accolse i Francesi, che vi restituirono Annibale Bentivoglio, e le truppe papali condotte dal duca d’Urbino, assalite nella ritirata, toccarono grave sconfitta.

Del quale mutamento di cose profittando Alfonso duca di Ferrara ricuperò gran parte delle sue terre di Romagna e il Polesine di Rovigo, e il Trivulzio faceva altresì progressi, ma non perciò veniva meno l’animo nei Veneziani,
che eccitavano anzi il papa a rifare l’esercito, e morto il loro capitano generale Lucio Malvezzi gli surrogarono Gian Paolo Baglioni perugino opponendolo, con quelle maggiori forze che potevano, ai nuovi vantaggi che i Tedeschi comandali dal duca di Brunswick riportavano nel Friuli e il francese La Palisse nel Veronese e Vicentino.

Questi e il re di Francia convocano un concilio a Pisa, il papa decreta un concilio ecumenico a Roma

Così era combattuta, dilaniata questa povera Italia, già tutta quasi dipendente dallo straniero, quando gli ambasciatori dell’imperatore e del re di Francia ricorrendo ad altre armi ancora oltre alle militari, deliberarono di raccogliere a Pisa il concilio, di che s’era già tenuto parola in quello di Tours, e ne pubblicarono le lettere di convocazione. Si riunì esso infatti il 4 di novembre, ma assai poco numeroso, e appena aveva tenuto tre sessioni che per lo scontento del popolo fu costretto a ritirarsi a Milano, mentre il papa dal canto suo chiamava altro concilio ecumenico per il giorno 19 aprile 1512, scomunicava i cardinali di Santa Croce, di San Malò, di Cosenza, di Bayeux, per il favore prestato all’altro concilio; stringeva nuova lega con Venezia e con il re cattolico il 4 ottobre 1511, a cui poi aderì anche quello d’Inghilterra a difesa e sostegno detta santa madre Chiesa. In virtù di questo trattato il re Ferdinando mandava nel regno di Napoli mille duecento lance od uomini d’arme, mille cavalli leggeri e diecimila fanti da mantenersi a spese del Pontefice e della Repubblica, i quali sotto il comando di Raimondo da Cardona dovevano operare con le truppe papali nella Romagna, nel tempo stesso che si muovevano di nuovo gli Svizzeri a calare nella Lombardia, ove reggeva allora come governatore Gastone di Foix duca di Nemours nipote dello stesso re.

Proclami di Massimiliano 

Massimiliano intanto, tardo sempre nelle cose della guerra, cercava con bandi che faceva penetrare in Venezia di eccitare il popolo alla sollevazione. Già uno ne aveva pubblicato da Augusta, 15 aprile 1510, ora altro ne faceva susseguire da Innsbruck, l’ 1 agosto 1511. Furono portati ai capi del Consiglio dei Dieci, i quali non mostrarono curarsene. Una nuova commissione per Massimiliano però mandava il Senato ad Antonio Giustiniani in data 28 luglio 1511: dovesse ricordare l’antica osservanza veneziana verso gli imperatori ed esprimere il desiderio di continuarla, le cose passate essere occorse principalmente a cagione dei Francesi, che anche a lui mancavano di fede e disegnavano insignorirsi di tutta Italia, non avendo rispetto né a Sua Maestà, né alla Santa Sede, né ai luoghi a questa sottoposti; che quando la Repubblica aveva conchiuso tregua con l’imperatore per venir poi ad onorevole pace, essi avevano fatto il possibile per impedirla; volesse egli dunque impor freno alla loro insaziabile cupidigia; movesse a tutela propria e dell’Italia; prendesse il ducato di Milano per poi disporne a piacimento, al che offriva la Repubblica non solo di fornire tutte le proprie forze ma di restituirgli inoltre tutte le terre che ancor di lui teneva e che possedeva prima del cominciar della guerra ricevendole a titolo d’investitura gli pagherebbe perciò duecento cinquanta mila fiorini del Reno per una volta sola, ovvero seicento mila da pagarsi a cinquanta mila l’anno ed inoltre una conveniente somma annua a titolo di ricognizione e censo: avrebbe Sua Maestà nell’impresa di Milano anche l’appoggio del papa, del Cattolico, dei re di Portogallo e d’Inghilterra; in pari tempo però si raccomandava all’ambasciatore di non concludere troppo presto, ma di prender tempo e di offrire diecimila fiorini e benefizi nel dominio veneto per quattro mila ducati l’anno al Gurcense quando per opera sua si recasse a termine il trattalo. Il 5 agosto veniva a Venezia il cardinal sedunense ed offriva la sua mediazione di pace con l’imperatore, consigliando interessarvi anche il Lichtenstein, il Carenstainer ed altri ministri, ottenere dal papa il cappello cardinalizio al vescovo di Brescia cognato del Lichtenstein o a quello di Trento altro suo parente e garantire gli Stati di Paolo Lichtenstein in Tirolo.

Ma erano inutili sforzi. L’indole instabile di Massimiliano, l’influenza dei ministri, i grandi suoi disegni di andare a Roma, di ripristinare l’ impero romano, si dice perfino di farsi papa, disegni ai quali mal corrispondevano i mezzi, mancante com’era per lo più di danaro e colla informe costituzione di Germania, onde i sussidi dipendevano dal buon volere dei principi, e le truppe dalla durata delle ferme e dalla misura delle paghe che ricevevano, facevano che egli non potesse divenire a risoluzione alcuna ferma e definitiva. (1) … segue.

(1) SAMUELE ROMANIN. Storia Documentata di Venezia Tomo V. Tipografia di Pietro Naratovich 1856.

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