Giovanni II Corner. Doge CXI. – Anni 1709-1722

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Sala dello Scrutinio. Gregorio Lazzarini. Ritratto di Giovanni II Corner

Giovanni II Corner. Doge CXI. — Anni 1709-1722 (a)

Le molte virtù, fra cui la modestia e l’ animo grande di Giovanni Cornaro, gli meritarono i pieni suffragi degli elettori, sicché il di 22 maggio 1709 fu chiamato al trono ducale.

Continuava la Repubblica nel suo sistema di neutralità armata, nella guerra che ardeva fra l’ imperatore e il re di Francia; il quale ultimo, ridotto a mal partito, si trovò nella necessità prepotente di rivolgersi alla Repubblica, affinché s’interponesse siccome mediatrice nella contesa. Accolse dessa di buon grado la proposta, ed eleggeva il cavaliere Sebastiano Foscarini all’ufficio geloso: ma recatosi egli all’Aja, a nulla valse la sua molta eloquenza ed il suo zelo per condurre gli animi ad accordo, che molte ed esagerate erano le pretensioni dei vincitori, Cosicché la guerra continuò. L’accaduta morte dell’imperatore Giuseppe I, a cui successe Carlo VI, ed il procedere dell’ Inghilterra, che si inchinava a Francia, diedero in seguito motivo a ripigliare le trattative di pace.

Difatti, si radunava un congresso ad Utrecht, a cui intervenne per la Repubblica il cav. Carlo Ruzzini, e dopo lunghe, intralciate e noiose discussioni, fu segnata ivi la pace il dì 11 aprile 1713, senza però l’intervento dell’imperatore, il quale continuò la guerra con Francia fino al 6 marzo dell’anno seguente 1714, nel quale le parti contendenti vennero ad accordo in Rastadt, ratificato poi più largamente a Baden nel 7 del susseguente settembre.

Ma se quietavano le armi in Europa, rumoreggiava la procella di guerra in Oriente, mossa dalle male arti dei Turchi, contro la Repubblica. La pace da essi segnata a Carlowitz nel 1700 era loro riuscita di vergogna, e quindi in cuore nutrivano perpetuo stimolo di romperla, onde ricuperare la perduta Morea. Ed ora sembrò loro venuto il momento propizio: poiché, fatta pace da essi con Russia, stimando stanco l’imperatore dalla lunga guerra sostenuta, e vedendo la Polonia agitata, e solo curante della propria difesa, pensarono nuovamente assalire Venezia. Mancando però loro giusto motivo per romperla, si preparavano intanto con grandi armamenti all’uopo, aspettando immediato pretesto per incominciare la lotta. E questo sovenne in occasione che i Veneziani predarono una nave turca carica dei tesori dell’ultimo gran visir; e dai fatti del Montenegro, il cui vladica, sconfitto e perseguitato dai Turchi stessi, si era rifuggito nel territorio di Cattaro, il cui comandante aveva rifiutato consegnare. Il manifesto di guerra, che conteneva quattordici articoli di lagno, si pubblicava il 9 decembre 1714, e il gran visir, chiamato a sé il bailo Andrea Memmo, acerbamente rinfacciandolo dei torti della Repubblica, senza voler ascoltare le sue giustificazioni, condurre lo fece nella fortezza di Abido, liberandolo poi, allorché seppe, non avere sofferto alcun insulto i Turchi dimoranti a Venezia.

Pervenuta la triste nuova al Senato, volse l’animo tostamente a levar truppe, ad allestire la flotta, a munire le piazze della Morea e della Dalmazia; e in pari tempo sollecitava i principi d’Europa ad accorrere in suo aiuto. L’imperatore Carlo VI interponeva i suoi buoni uffici a Costantinopoli, con lo scopo di ridurre a miti pensieri il gran visir; ma riuscite vane le pratiche, si vide nuovamente costretta la Repubblica di brandire le armi, quantunque impari a petto delle possenti forze nemiche.

Gli aiuti invocati dai principi cristiani, come sempre, riuscirono senza effetto, o meschini di troppo. Il pontefice promise quattro galee; il duca di Toscana ne diede altre due; sei ne aggiunsero i cavalieri di Malta. Austria, Francia, Spagna, Inghilterra ed Olanda, furono larghe di parole, brulle di fatti. Si apriva dunque la campagna nel 1715, in cui la flotta ottomana, comandata dal capudan-pascià, usciva dai Dardanelli forte di trentadue grossi vascelli, e di numero considerevole di altri legni, mentre non men formidabile esercito si avanzava per terra dirigendosi alla volta della Morea.

A scongiurare la procella il Senato affidò la carica di capitano generale a Girolamo Delfino, e pose sotto gli ordini di lui ventidue navi, due galeazze, alquante galee e parecchi altri legni minori: poca cosa in confronto alla grande oste nemica.

La quale uscita, come dicemmo, in mare ed in terra, tostamente occupava l’isola di Fine, ceduta dalla pusillanimità del comandante Bernardo Balbi, il quale in pena di ciò soffriva perpetuo carcere. Occupava poscia Egina, ed entrava, per l’istmo, nella Morea, commettendovi tutte quelle depredazioni, incendi e rovine di cui furono sempre capaci quei barbari, che legge e fede non hanno.

Fatti arditi i Turchi da queste prime fortunate intraprese, ponevano assedio a Corinto; la quale, quantunque difesa valorosamente dal provveditore straordinario Jacopo Minotto, dovette alla fine arrendersi, assalita come fu da numero sterminato di genti, e bersagliata dal continuo tuonare delle artiglierie. In Candia anche tentarono i Turchi l’acquisto di Spinalunga e di Suda, sole fortezze che rimanevano ai Veneziani in quell’isola. Difendeva la prima Francesco Giustiniani, la seconda Luigi Magno; ma sebbene invocassero soccorso dal capitano generale, questi non poté accorrere all’uopo, impedito da un lato dalla possente flotta nemica, e dall’altro indeciso del dove aveva a recarsi, poiché altri luoghi minacciati lo appellavano premurosamente.

Padroni di Corinto i Turchi, giunsero, come onda senza freno, sotto le mura di Napoli di Romania, principale propugnacolo di quella provincia. Era a difesa di essa il provveditore generale Alessandro Bon, e sebbene non erano compiute le grandi fortificazioni a cui, con molto dispendio, si aveva dato mano, sperava egli poter opporre valida resistenza. Senonché, nel mentre si pugnava da ambedue le parti, una mina scoppiando squarciava la controscarpa di un bastione, e sì che diede modo ai giannizzeri di scalare e impadronirsi di un’ opera esteriore; e da questa procedendo s’ introdussero nella città, ove fecero orrida strage, non riservando il furor loro che le donne e i fanciulli, e pochi altri, tra i quali il Bon, che morì in viaggio, il generale Zacco, Angelo Balbi, Giovanni Badoaro, Niccolò Barbaro e suo figlio, che vennero mandati cattivi a Costantinopoli.

Il Delfino, che stava con la flotta presso l’ isola di Sapienza, rimase attonito e dolorato alla nuova della caduta di quella fortezza. Volle egli, con gli aiuti allora ricevuti, uscire ed attaccare i nemici, e lasciato quindi grosso presidio a Modone, mosse contro la flotta ottomana, che stava incrociando tra il canale di Vatica e il Capo Matapan: ma il Turco si sottrasse dalla battaglia, e si ridusse a fiancheggiare l’assedio di Modone.

Disperata era ormai la salvezza di questa e delle altre rimanenti fortezze della Morea: ed in fatti sì rapidamente procedevano i Turchi, che ben presto acquistavano il castel di Morea; al quale esempio spaventato il presidio di Modone, rifiutò di più oltre difendersi, dopo cinque assalti sostenuti, ed obbligarono il valoroso provveditore Vincenzo Pasta ad arrendersi.

Rimaneva in Morea alla Repubblica ancora la sola piazza di Malvasia, forte per sito, provveduta largamente d’ ogni maniera di munizioni, numerosa di guarnigione; ma in cambio di resistere, alla prima intimazione del capudan-pascià, il provveditore Federico Badoaro e gli altri capitani convennero della resa da farsi entro venti giorni, se non fossero giunti soccorsi. Acconsentito dal Turco il patto, seppe ben egli impedire l’arrivo degli aiuti sperati, onde anche quella piazza fortissima cadeva. Della vile condotta fu punito il Badoaro con la pena di perpetua carcere.

Sia dunque a cagione delle forze preponderanti del Turco; ossia per lo scaduto animo dei Veneziani, le cose più sempre precipitavano, sicché perdevasi la Morea, e con essa, mano mano, Cerigo, la Suda e Spinalunga in Candia, nel mentre le altre isole tutte erano minacciate possentemente.

Nella sola Dalmazia il provveditore Giorgio Balbi mostrava non esser spento il veneto valore; perciò diede prova di segnalato coraggio nella eroica difesa di Sing, che con ogni sacrificio salvò.

In quella vece, dopo le accennate conquiste, al mostrarsi che fecero i Tunchi di voler dirigere le loro armi contro Santa Maura, il capitano generale Delfino, convocata la consulta di guerra, considerando il numero sterminato de’ nemici, le molte milizie che si richiedevano a difenderla, la debolezza del suo recinto, decide dì abbandonare quell’isola, dopo distrutte le fortificazioni, e imbarcate le artiglierie, le munizioni, le famiglie, che vollero rifugiarsi nelle terre della Repubblica. Così terminava l’infausto anno 1745, nel quale la veneta fortuna tramontando, perduto aveva il regno pochi anni prima conquistato dal valore di Francesco Morosini.

Il capitano generale Delfino, con la flotta, che non aveva mai combattuto, si ritirò a svernare nel porto di Corfù; ed il Senato, male soddisfatto della sua condotta, nominò a sostituirlo nella carica, per il seguente anno, Andrea Pisani. Nel frattempo Pietro Crimani, ambasciatore presso la corte di Vienna, chiudeva un trattato con l’imperatore Carlo VI, per il quale si obbligavano le parti di entrare in lega a difesa comune dei loro Stati in Italia, e l’imperatore prometteva di muover tosto guerra alla Porta.Cotale lega fu segnata il 13 aprile 1746.

Aprivasi quindi la stagione delle pugne, e il principe Eugenio, guidando forte oste di Austriaci, penetrava nell’Ungheria, domandando al gran-visir che la pace di Carlowitz fosse osservata, e fosse dato alla Repubblica indennizzo dei danni a lei cagionati. Non essendo stato dato ascolto alla domanda, fu intimata e rotta la guerra.

Dall’altra parte, la Repubblica preso al suo soldo il generale sassone Giovanni Matteo di Schoulembourg, lo incaricava della difesa di Corfù, minacciata dal Turco. Il nuovo generalissimo Andrea Pisani giungeva nel frattempo alla flotta, che stava ancorata nel porto di Zante e contemporaneamente, la classe ottomana, uscita dai Dardanelli, si avanzava sino alle coste del Capo Matapan. Il capudan pascià, che la comandava, poneva tosto in opera uno stratagemma affine d’ingannare il Pisani, tuttavia ancorato nel porto ora detto di Zante, facendogli ad arte pervenir nelle mani una scritta, diretta ai sindaci della Colonia, con la quale invitava quegli isolani a rendere omaggio al sultano, offrendosi mediatore per essi, acciocché fossero loro conservati tutti i privilegi nazionali, minacciandoli in quella vece de’ più severi castighi, ove se ne fossero rifiutati. Pensava con essa lettera il Turco d’indurre il Pisani a trattenersi in quel porto, per poter intanto volgersi liberamente sopra Corfù a tentarne l’acquisto. Per colorire vie meglio l’insidia, si allontanò tutto ad un tratto e finse di prendere il corso verso le coste dell’Africa, donde con più lungo, ma sicuro viaggio, comparve nelle acque di Fano, di fronte ad Otranto; e con rapido corso si portò poi verso la Vallona, ove doveva approvvigionarsi; ed alla fine, il dì 5 luglio 1716, entrò con la sua flotta nel canale di Corfù.

Non è a dire quale fosse lo spavento di quegli isolani, tanto più grande, quanto che videro il Pisani allontanarsi dalla città, non sapendo, che era suo divisamento sollecitare l’unione di tutta la sua flotta, e di proteggere i convogli delle munizioni e dei viveri che sapeva essergli stati spediti dalla madre patria. Di fatti egli ne aveva dato avviso al provveditore straordinario Andrea Cornaro, ordinandogli di recarsi con le navi in tal posizione da potersi mantenere in sopravvento di Corfù. Ma il Cornaro, che aveva già ricevuto notizia che la flotta nemica stava nel canale di quell’isola, vi accorse con che sua squadra, ed entrava nel canale medesimo travagliando la flotta nemica, e sì che la costrinse, dopo grave perdita, a ritirarsi sotto il cannone di Butrintò, per cui poté il Cornaro ancorarsi colle sue navi ai piedi del vecchio castello di Corfù. Né in questa posizione ebbero animo i Turchi di molestarlo, e diressero invece le loro opere a proteggere lo sbarco di 30.000 fanti e 3.000 cavalli nel lato settentrionale dell’ isola, i quali piantarono il loro campo nelle saline di Potamò.

Tentarono i Turchi qualche mossa contro la città, ma senza esito. Poi con più fortuna, si impadronirono dei due posti vantaggiosissimi, nelle montagne di Abramo e di San Salvatore: diedero quindi molti assalti, ma la instancabile attività del provveditore Antonio Loredano e del generale in capo delle truppe terrestri lo Schoulembourg, li resero al tutto vani.

La continuazione però di cotali assalti affaticava oltremodo la guarnigione, e quindi i veneti comandanti concertarono una vigorosa sortita, affine di rallentarne la frequenza. Posti in armi dunque, nel cuor della notte, trecento fanti Tedeschi e duecento Schiavoni, avevano questi ad uscire dalla porta dello Scarpone; quattrocento ne dovevano uscire dalle porte Rimonda e Reale: le galere, distribuite in due squadre, dovevano col cannone battere il campo, l’una al Mandracchio, l’altra alle Castrade, nel mentre che la città, la fortezza nuova e lo scoglio di Vido avrebbero scaricato senza posa le loro artiglierie addosso ai nemici. Questo assalto, nelle ore più quiete della notte, intrapreso da tanti lati, doveva certamente spaventare i nemici, metterli nella confusione ed aprire la via a qualche vantaggio agli assediati.

Gli Schiavoni entrati nella trincea nemica, con la spada alla mano, trucidarono tutte le guardie, posero in fuga i piccoli corpi che occupavano i posti avanzati, e vedendo inoltrarsi alcune brigate di Turchi per affrontarli, stavano a piè fermo ad aspettarli. Ma nel mentre si azzuffavano coraggiosamente col nemico, sopravvennero dall’altro lato i Tedeschi, i quali, senza conoscerli, li presero di schiena ad archibugiate e ne uccisero parecchi. Questo sinistro costrinse i nostri a rientrare in città scemati di numero, più per le armi dei compagni, che non per le offese degli avversari. Tuttavia la sortita non riuscì inefficace, perché preparò la via a nuovi avvenimenti.

Deliberò il serraschiere di tentare un assalto generale della città, lusingandosi che la sorpresa impetuosa spargerebbe lo sbigottimento nei difensori, e la perdita indispensabile di buon numero dei suoi assicurerebbe a lui la vittoria. La notte dunque del 18 venendo il 19 agosto, fatti sbarcare grossi corpi di milizie, e posto in armi tutto il suo campo, dopo i convenuti segnali, cominciò con tanto furore l’assalto del rivellino di difesa al bastione di Santo Antonio, che i Tedeschi, a cui ne era affidata la custodia, abbandonarono i loro posti e si rifugiarono nel castello nuovo. I Turchi, divenuti padroni del rivellino, rialzarono il terreno sopra lo Scarpone, e vi piantarono trenta bandiere; poi si accinsero con ogni sforzo a scalare gli angoli bassi della fortezza. Era evidente il pericolo di gravi sconcerti, perché le milizie del presidio erano troppo sbigottite dalla violenza dell’ assalto; ma non di meno, venuti alle mura il Loredano, lo Schoulembourg, il provveditore Francesco Moro e tutti gli ufficiali di grado superiore, poterono con la voce e con l’esempio e con il rinforzo di genti fresche, rinfrancare il coraggio dei combattenti ed animarli a rispingere gli assalitori. Fulminava dalle mura il cannone, la moschetteria non faceva mai tregua: erano lanciati sui nemici sassi, bombe, granate, fuochi artificiali, e tutto ciò che recava alle mani la necessità di una disperata difesa; alla quale accorsero invasati da furore, donne, fanciulli, vecchi, sacerdoti e monaci. Allora il valoroso Schoulembourg si pose alla testa di ottocento soldati e si recò ad assalir  i  nemici di fianco; cosicché, non potendo costoro resistere al nuovo conflitto, a cui li costringeva il prode generale, si diedero alla fuga abbandonando il rivellino. Vi si trovarono venti bandiere e duemila morti: i fuggitivi furono inseguiti fino alle loro trincee.

Fu questo l’ultimo sforzo dei Turchi sotto la piazza di Corfù. Nella notte del 21, senza far altri movimenti, partirono a precipizio dall’isola, colti da improvviso spavento per impetuoso turbine, che con tuoni, fulmini e dirottissima pioggia aveva allagato i loro accampamenti, aveva squarciate le loro tende, aveva tolto ogni difesa e riparo alle truppe. Le quali tumultuando chiedevano il rimpatrio: a cui indurre il serraschiere giungeva una lettera del nuovo gran-visir, che richiamava le truppe da quell’assedio, a motivo della grande sconfitta toccata dai Turchi, il 5 agosto, a Petervaradino, con la morte del gran-visir che li guidava, data loro dall’invitto principe Eugenio. Laonde la partenza degli ottomani da Corfù si compì a guisa di cicca fuga; perciò abbandonarono cinquanta pezzi di cannone, otto morti, bagagli, attrezzi militari ed abbondanti munizioni da bocca e da guerra. Per tal modo ebbe fine l’assedio di Corfù, che aveva durato quarantadue giorni, e costato ai Turchi la perdita di quindicimila uomini.

La nuova della liberazione di Corfù fu accolta con immensa gioia a Venezia. Il Senato, a dimostrare la sua pietà, spediva in voto all’altare di San Spiridione di quella città, una ricca lampada onde ardesse perpetuamente; e attestava la sua riconoscenza ai capitani che si erano distinti in quella impresa, assegnando allo Schoulembourg la pensione vitalizia di cinquemila ducati, presentandolo di una spada gioiellata, e decretando che in di lui onore fosse eretto una statua nella fortezza da lui difesa.

Anche l’armata navale ottomana sgomberò dal canale di Corfù, riducendosi nel golfo di Corone. Andrea Pisani la inseguì, ma non poté raggiungerla, mentre prese rapida fuga riparandosi nel canale di Costantinopoli, chiudendo così la campagna del 1710.

Nella nuova stagione Lodovico Flangini, succeduto nel carico di capitano straordinario delle navi, in luogo di Andrea Cornaro, scioglieva dallo Zante con la flotta composta di ventisette vascelli di linea, e dirigevasi alla volta dell’Arcipelago. Giunto a Stalimene il 6 giugno 1747, rivolse tosto il suo corso verso i Dardanelli, essendogli pervenuta notizia che la classe nemica, forte di quarantasei navi, stava ancorata presso i Castelli. Aveva anche avuta relazione, che queste navi erano male equipaggiate a cagione della peste e delle diserzioni. Lieto di cotali nuove, il Flangini si era dato alla vela per attaccare il nemico e combatterlo; e sebbene non potesse guadagnare il sopravvento, tuttavia era risoluto incagliare la pugna.

I Turchi, avvedutisi dello appressarsi della flotta veneziana, spinsero fuori dello stretto trentaquattro navi, per offrire battaglia al Flangini. Era il 12 giugno, e mancavano due ore al tramonto del sole. Staccarono i Turchi otto delle proprie navi e le diressero ad attaccarne tre veneziane, le quali ne sostennero con molto valore l’assalto. Il capudan-pascià mosse allora contro la capitana del Flangini; ma postesi in ordinanza le navi veneziane, per lo scapito del sottovento, cominciarono a battersi furiosamente contro i Turchi. L’azione divenne generale; fu continuata sino a notte, e fu sanguinosa, lasciando la vittoria indecisa.

Si diressero quindi i Veneziani dal lato di ponente, tra Imbro e Stalimene, e all’albeggiare del giorno si trovarono alla punta di Lemno, alla distanza di quindici miglia dal nemico: ma sì l’ una che l’altra flotta rimase con le vele in panno a cagione che niun’aura di vento spirava. Mancavano all’armata ottomana due navi, le quali, malconce per l’avvenuto conflitto, non erano più in grado di seguitare il corso delle altre: i Veneziani avevano la nave Colomba offesa due piedi sotto acqua da una palla di cannone. Stettero le due flotte alcune ore inoperose; poi, quando spirò lieve zeffiro, sette navi turche si mossero verso le navi comandate da Marcantonio Diedo, capitano ordinario, e dal Costanzi, maggior di battaglia, che stavano fuori della linea, quasi a retroguardia. Uscì allora il Flangini con le altre, per impedire il danno di quelle; ma i Turchi, per evitare lo scapito che avrebbero dovuto soffrire dal sottovento in cui per avventura si trovavano, si diedero alla fuga. I nostri gli inseguirono fino al tramonto.

Per due giorni consecutivi le due flotte scorsero il mare, aspettando occasione propizia per venire a battaglia ; nel terzo giorno, che era il 16 del mese superiormente accennato, avendo i Turchi il vantaggio del sopravvento, attaccarono l’armata veneziana. Allora il Flangini, alzato il segnale della pugna, animò i suoi al combattimento con alate e calde parole, e sì che tornò vivissimo e sanguinoso. Per tre ore continue con estremo valore si pugnò; ma in fine toccarono i Turchi sconfitta. Perciò il Flangini ruppe la linea nemica, fracassò la nave capitana, affondò tre grossi vascelli ed un brulotto, e la vittoria sarebbe stata piena e solenne, se il Flangini, dopo di avere perduto quasi tutta l’alberatura della sua nave, non fosse stato colpito di ferita mortale. La confusione, di cui fu conseguenza questa sciagura, diede modo e tempo al nemico di fuggire velocemente, e guadagnare asilo nel porto di Stalimene. Sul rompere dell’alba del dì appresso, uditi alquanti colpi di cannone, si tenne che il nemico non fosse lontano: ordinò pertanto il moribondo Flangini di scioglier tosto la flotta, e dar la caccia ai nemici. E perché i suoi ordini fossero subitamente eseguiti, quantunque presso a morte, volle essere recato sopra il cassero della propria nave per comandare egli stesso le manovre e la pugna; ma nello scuotimento del mare e della nave spirò egli tra le braccia dei suoi soldati, lasciando un nobilissimo esempio di valore e di abnegazione della propria per salvare la vita dei suoi e la gloria della patria.

Alla nuova di questo combattimento, il capitano generale Pisani risolse di partire da Corfù e di unirsi alla flotta vedovata del Flangini, tanto più quanto che gli erano pervenute in aiuto due navi fiorentine, cinque maltesi, due pontificie, sette portoghesi e due brulotti. Si univo infatti al Capo Matapan con i vascelli che avevano allora allor combattuto. La flotta turca, anche essa rinforzata di alquante navi ausiliarie di Barbaria, comparve lungo le coste della Morea; sicché pochi dì appresso, cioè il 19 luglio, nelle acque di Cerigo, vennero le due flotte alle prese, e dopo otto ore di terribile e sanguinosa battaglia, i Turchi maltrattati si ritirarono, e i Veneziani veleggiarono verso le isole di Santa Maura, del Zante e di Cefalonia, minacciate dal serraschiere della Morea. Toccato Corfù, ivi il Pisani si concertò con il maresciallo di Schoulembourg, onde provedere alla sicurezza di quelle tre isole. Formata quindi una squadra dei vascelli atti alle pugne, questa diede a reggere a Marcantonio Diedo, affine di recarsi contro il capudan pascià, entrato nel golfo di Corone. Senonché, essendo stato colui richiamato a Costantinopoli, in conseguenza delle sconfitte toccate dai Turchi in Ungheria dal principe Eugenio, mossero i Veneziani contro Prevesa e la conquistarono, come conquistavano poco poi anche Vonizza, arrestando, la stagione di troppo avanzata, l’assedio che divisava di porre alla fortezza di Larta

Nel mentre che si ottenevano sì rilevanti vittorie sul mare, nella Dalmazia pure, Sebastiano Mocenigo, proseguiva le imprese con lieta fortuna.  Dopo di aver egli preservato la piazza di Sing dall’assedio postovi dal Turco, e di aver fortificato validamente Norino ed Opus contro le molestie del pascià della Bosnia, presa l’offensiva, aveva sottomesse le provincie di Munstar, di Scablat e di Goranza; desolato aveva tutto il paese nemico fino a Narenta; preso il forte castello d’Imoschi nella Erzegovina, e marciava quindi verso Antivari nell’Albania, nel mentre Angelo Emo operava contro Ottovo, Zarine e Popovo, e se ne rendeva padrone. Così chiudevasi la campagna del 1747, riuscita di lieti eventi per i Veneziani, i quali innalzavano l’animo a cose maggiori, da porsi in atto nell’anno seguente.

Le gravi perdite sofferte dai Turchi, massime nell’Ungheria, risolverli fecero a chieder pace, spedendo a tale effetto un agà al principe Eugenio, ricercando anche la mediazione dell’ Inghilterra e dell’ Olanda. Eugenio scrisse tosto alla corte di Vienna, la quale, desiderando anch’essa di por fine alla guerra per disporre l’ esercito a difesa dei suoi Stati d’Italia, minacciati dalla Spagna, acconsentì ad entrare in trattato,, a condizione che la Repubblica vi fosse compresa. Pertanto furono tenuti a Vienna parecchi colloqui tra il principe Eugenio, l’ambasciatore Pietro Grimani e Carlo Ruzzini, spedito là dal Senato per maneggiare la pace. Alla fine di aprile si recarono i plenipotenziari al luogo stabilito, vale a dire, in un borgo di poca importanza nella Servia, al di là del fiume Morava, il quale, per essere vicino al villaggio di Passarowitz, prese da questo nome la pace ivi con chiusa.

Nel mentre che si avviavano le pratiche per stabilire il trattato, non cessavano però le opere guerresche; poiché i Veneziani, più che altro, avrebbero voluto continuare a combattere e vincere, onde conseguire migliori patti, quelli che al Ruzzini erano stati negati perfino dal principe Eugenio. Quindi la veneta flotta si diede a seguire la turca, la quale, passato lo stretto dei Dardanelli, si era ancorata a Negroponte. Uscita poscia da là, dirigevasi verso Cerigo, ove in quelle acque s’incagliò la battaglia, riuscita terribile, sanguinosa e che fu protratta fino a sera; nella quale toccavano i Turchi sconfitta. Nel tempo stesso le truppe terrestri della Repubblica, guidate dal prode Schoulembourg, ponevano l’assedio a Dulcigno; ma quando stava per cadere, un ordine del Senato venne a sospendere le ostilità, a cagione della pace fermata in Passarowitz.

Il trattato veniva là segnato, con lo scambio delle scritture, il 21 luglio 1718, per lo quale i Veneziani dovettero accontentarsi di alcuni favori di commercio, e della conservazione dei castelli conquistati nella Dalmazia, Albania ed Erzegovina, cioè, Imoschi, Iscovaz, Sternizza, Cinista, Rolok e Creano col territorio di quattro miglia di periferia; di conservare anche l’isola di Cerigo, Rutrintò, Prevesa e Vonizza; ma si obbligavano però di aprire la comunicazione turca con Ragusa, e cedere i luoghi di Zarine, Ottovo e Zubzi. Quindi per esso trattato perdettero la Morea, scarso compenso essendo le terre conservate, e le larghezze di commercio ottenute.

Tal fine ebbe una guerra sostenuta per il corso di oltre quattro anni, al prezzo di sacrifici gravissimi: e ad aumentare i danni accadde nuova e grande sciagura, quella cioè della rovina causata alla fortezza vecchia ed alla città di Corfù per un fulmine caduto sulla polveriera, la notte del 28 ottobre, o, come altri dicono, del 21 settembre di quell’anno 1718, da cui tutti gli edifizi della cittadella crollarono, tra i quali il palazzo generalizio, con la morte del capitano generale Andrea Pisani, del teologo Frangipane, del medico Giambattista Miaro, padovano, del consigliere Bon, del castellano Zorzi, e di molti e molti altri; sicché a riparare le rovine sofferte dalle fortificazioni, il Senato spedì tosto valenti ingegneri; soccorrendo ancora, con munifiche elargizioni, gli infelici abitanti che avevano patito in quella orribile sciagura.

Sebbene, nel trattato di Passarowitz, si era fermato, fra le altre cose, la sicurezza della navigazione, pure poco mancò che non venisse rotto o turbato l’accordo, a cagione di due piccoli fatti accaduti poco poi. Il primo fu la preda che fecero alcuni corsari di Barbaria di un legno di Perasto carico di grano, cui per riavere, il capitano del Golfo Pietro Vendramino, dava la caccia ai quei pirati, i quali, rifugiatisi nel porto di Durazzo, e spiegata, prima la bandiera di Tunisi, poi l’ottomana, resistevano, sì essi che il comandante di quel porto, a restituire la preda. Ma la prudenza del Vendramino, e la grande sua abilità valsero a comporre le cose in guisa, che alla fine ottenne il legno ed il carico catturato. Il secondo fatto, assai più grave, fu prodotto da una barca di Dulcigno, la quale essendo ancorata nel porto di Venezia, con turca bandiera, le ciurme di essa vennero ad alterco con alcuni Schiavoni, da cui ne nacque una zuffa, usandosi nella quale dai Dulcignoti il fucile, rimaneva morto alcun innocente che stava sulla riva vicina. Da ciò infuriati gli Schiavoni, attaccarono il legno, lo posero in fiamme e ne trucidarono i marinai. Di questo fatto menarono grande rumore i Dulcignoti a Costantinopoli, domandando risarcimento dei danni e solenne vendetta. Il bailo Giovanni Emo, robustamente espose le ragioni della Repubblica, e dopo vinte le difficoltà mosse dai Turchi, fu la questione posta in silenzio, assoggettandosi il Senato a pagare venticinque borse agli eredi degli uccisi, e liberare tutti gli schiavi musulmani che erano in poter suo; mentre il sultano, d’altra parte, ordinava al pascià di Scutari e al cadì di Dulcigno di vietare ai Dulcignoti di più recarsi a Venezia o nei porti a questa vicini.

Per tal modo evitò la Repubblica di romper nuova guerra con la Porta, fermato avendo di rimanere in pace, né immischiarsi nelle questioni che tuttavia agitavano le varie Corti d’ Europa. Quindi non diremo, né del trattato d’Utrecht, col quale era stata assegnata al duca di Savoia la Sicilia; non dello scontento che per ciò dimostrava l’imperatore; non del trattato di Londra, chiuso fra l’imperatore stesso ed i re di Francia e d’Inghilterra; non della cacciata dalla Spagna del cardinale ministro Alberoni, che morì a Roma avvilito; e ci ristringeremo a dire, che il doge Giovanni Cornaro passava alla seconda vita a mezzo l’agosto del 1722, lasciando la Repubblica in pace. Nei funerali solenni che a lui si resero nel tempio dei Santi Giovanni e Paolo, diceva le sue lodi Luigi Lazzari, che vanno alle stampe; ed era poi tumulato nella chiesa di San Nicola da Tolentino, nella cappella eretta dalla sua famiglia, e da lui stesso decorata con i monumenti degli uomini illustri della sua casa, non escluso se stesso.

Al suo tempo, cioè nel 1712, si ordinò la terza redecimazione generale di tutti i beni. Nel 1721 fu promulgata una nuova legge a reprimere il lusso smodato; e l’anno dopo fu istituita la magistratura dei Tre inquisitori sopra l’università degli Ebrei, con piena autorità di regolare qualsiasi disordine del Ghetto, e stabilire quei regolamenti opportuni e salutari per ristabilirlo.  Oltre a ciò accaddero i seguenti fatti. Nel 1715 il venerabile Mechitar de Petro, il quale aveva fondato un monastero in Modone fin dal 1708, si vide costretto, dalla guerra col Turco, fuggire a Venezia, ove otteneva dalla pietà del Senato, nel 1717, l’isola di San Lazzaro a perpetua abitazione della sua comunità, e quindi, con l’assistenza dei suoi connazionali armeni, poté poco a poco erigere il monastero, che, tranne un’aggiunta fattavi posteriormente, tuttavia esiste si mantiene in quella splendida fama, che seppero, con le loro virtù e colla sapienza loro, i monaci diffondere per il mondo tutto, sicché e riguardato siccome una gemma di questa singolare Venezia. Nell’anno stesso 1715 si riedificò la chiesa di Santa Maria dei Gesuiti, coi disegni di Domenico Rossi.  Nel 1718 si elevava nuovamente dalla pianta l’altra chiesa dei Santi Simeone e Giuda, per opera dell’architetto Giovanni Scalfarotto, e finalmente nel 1722 s’innalzò e lastricò di selci la piazza di San Marco, con la sopraintendenza di Andrea Tirali, lavoro durato fin il 1724. Notiamo, da ultimo, i casi straordinari accaduti di questi tempi, di cui è fatta memoria negli Annali. Nel gennaio del 1716, imperversò il freddo per modo che si gelarono le lagune, sicché sul ghiaccio transitavano dalla Terraferma genti e robe. Il dì 5 giugno dell’anno stesso, arsero le fucine dell’arsenale: il 28 luglio 1718, un altro incendio procurò gravi danni nella contrada di San Giovanni in Oleo e finalmente, nota il Gallicciolli, un altro incendio accaduto il 2 febbraio 1721 nel cenobio di San Giorgio Maggiore.

Il ritratto di questo doge è opera di Gregorio Lazzarini. Nel campo si legge :

IOANNES CORNELIVS, NEPOS FRANCISCI, PRONEPOS IOANNIS VENET. PRINCIPVM. A. MDCCXXII. (1)

(a) Nacque Giovanni Cornaro da Federico q. Francesco doge, nel 1647, e sostenute in patria al quante magistrature, passava, nel 1682, luogotenente in Udine, la quale, per le solerti cure di lui, fu salva dalla pestilenza che la minacciava ai confini della Germania. Poscia andò podestà a Brescia, ove ebbe il merito di provvedere, con grave sacrificio del suo, alla carestia che affliggeva quel popolo. Ed a Palma pure, in cui si recava come capitano supremo di quella fortezza, mostrò il suo zelo, nel riparare sollecito i danni e le mine causate dallo straripamento dei fiumi. Ripatriatosi, fu eletto consigliere nel 1696-1699, e nel 1708 venne promosso a senator dei Pregadi. Morto, nel 1709, il doge Alvise Mocenigo, fu uno dei cinque correttori della Promissione ducale, ed anche uno degli elettori del nuovo doge, rimanendo egli stesso eletto principe, come superiormente dicemmo. La sua modestia fu tale e tanta, che quantunque avesse largamente speso oro e cure nelle città e Provincie rette da lui, non volle che in onor suo si alzasse verun monumento dai grati popoli. Tale virtù, che non fu la sola posseduta dal Cornaro, gli meritò l’amore e la stima dei suoi concittadini, che lo piansero dopo morte.

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI

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