La Guerra di Candia (1645-1669). IX parte

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Stretto dei Dardanelli o Ellesponto

La Guerra di Candia (1645-1669). IX parte

Nuova commissione a Giovanni Cappello per procurare la pace, e maltrattamenti che egli soffre

L’anno 1655 nulla portò di rilevante nei fatti della guerra, la quale più si maneggiava per corse e rapine tanto sul mare quanto in Dalmazia, che non per formali battaglie, anzi sorta qualche debole speranza di pace per opera specialmente dell’ambasciatore francese de la Haye, la Repubblica aveva mandato a Costantinopoli a trattarne Giovanni Cappello, accompagnato dal segretario Giovanni Battista Ballarini. Diceva la commissione: procurasse di vedere il Sultano stesso, al quale doveva manifestare il desiderio della Repubblica di ristabilire l’antica pace ed amicizia; per il qual oggetto e per dimostrazione di stima essa lo mandava ambasciatore alla Sublime Porta; che se entrando nelle trattative, i Turchi mettessero di nuovo in campo la cessione dell’isola, dovesse escluderla affatto, attenendosi alle istruzioni già date al Soranzo, cioè di esibire per la pace mediante la restituzione di Rettimo, Canea ed ogni altro luogo occupato, primieramente ragguardevole somma di danaro, poi una pensione annua per la porzione del regno occupata dai Turchi; infine per maggior riputazione del Gran Signore, una pensione anche pel regno tutto; acconsentisse anche alla restituzione dell’occupato da Veneziani nella Dalmazia, che Rettimo e Canea fossero demolite, e cedute Tine e Parga. Al postutto, per eccitamento anche dell’ambasciatore di Francia, concedesse altresì che i Turchi conservassero in Canea e Rettimo alcune moschee, ma con pochi turchi disarmati pel solo servigio della religione, partendosi però la milizia da tutte le parti del regno, cosa a che il Mufti si mostrava non alieno dal consentire. “Procurasse dunque, continuava l’istruzione al Cappello, di concludere, ma badasse che i Turchi sotto il pretesto delle moschee non pretendessero di tenere piè fermo nel Regno, e limitasse il numero di quelli pel servigio del culto al numero di due o tre, considerando che anche con un solo vien soddisfatto al riguardo della religione. Quanto ai compensi accordasse fino a centomila reali per le spese, e da trenta a quaranta mila annui; cercasse se fosse possibile di aumentare anche la somma in luogo di cedere Tine e Parga; ad ogni modo però pattuisse di ritirarne le cose sacre, fossero restituiti da ambedue le parti i prigioni, si accordasse un generale perdono, nulla si esigesse dai particolari, i confini di Dalmazia tornassero come prima ecc.” Il Cappello trovò al suo giungere a Costantinopoli un nuovo vezir Ahmet, dal quale ammesso tosto e con le solite dimostrazioni di onore all’udienza, cominciò con grave discorso a rappresentare il giusto desiderio della Repubblica di rinnovare con decoro e vantaggio comune l’antica corrispondenza, ma secondo che egli andava esponendo le proprie ragioni, vedeva il viso d’Ahmet accendersi di ira e tutta la sua persona agitarsi, onde dette opportuno soprassedere per il momento, esibendosi di mettere la sua proposizione in iscritto. Gli fu accordata brevissima dilazione, dopo la quale tornato il Cappello con il foglio in mano si adoperava con ogni ingegno a persuadere la convenienza della restituzione scambievole dell’occupato, ma Ahmet montò in tanto furore, che ordinò si partisse tosto dalla sua presenza e dallo Stato, poi mutato pensiero lo fece arrestare già giunto ad Adrianopoli e custodirlo in prigione. Del che non è a dirsi quanto la Repubblica si risentisse e ne muovesse querela a tutti i principi ed alla Francia in specialità alla quale siccome mediatrice veniva il vezir per quell’atto a mostrare grande sprezzo. Distratto però ancor sempre il regno dalle proprie cure, altro non fece Luigi XIV se non che mandare il figlio dell’ambasciatore de la Haye alla Porta con efficaci premure per ottenere la liberazione del Cappello, così sostenendo in tutto il corso di questa guerra i Francesi la parte di mediatori anziché di sostenitori della Repubblica, non vedendo forse mal volentieri prolungarsi una lotta che favoriva il proprio commercio nel Levante. Tuttavia le loro insinuazioni, sebbene caduto il vezir Ahmed ed altro succedutogli di nome Mohammed, non valsero a far rimettere in libertà il Cappello, il quale poi finì miseramente logorato dal dolore e dai patimenti a Costantinopoli.

Battaglia dei Dardanelli

Conveniva dunque alla Repubblica mettere ogni speranza unicamente nella forza delle armi e anzi delle armi proprie, poiché tranne qualche lieve aiuto dai Maltesi e dal Papa, che poi ogni anno all’avanzar della stagione si ritirava, doveva essa supplire a tutto da sé sola. Candia resisteva ancora, né i nemici vi facevano tali progressi da lasciarne loro sperare tra breve l’acquisto; gli scontri per mare riuscivano quasi sempre felici ai Veneziani, e davano occasione a fatti di eroismo meraviglioso, direi quasi miracoloso. Era stato nominato di nuovo al comando Luigi Leonardo Mocenigo, ma non era per anco giunto all’armata quando Giuseppe Delfino si recava a chiudere come al solito il passo dei Dardanelli, con sedici navi ed inoltre due galeazze comandate da Giacomo Gabrieli e Girolamo Pesaro, ed otto galee sotto Francesco Morosini capitano del golfo. Del che avvertito il nuovo capudan bascià Murad uscì subito da Costantinopoli con quanti navigli poté frettolosamente raccogliere, ed erano quarantacinque galere, sei maone e ventidue navi, nel tempo stesso che altre ventidue galere fuori dello stretto venivano in suo soccorso serrando così i Veneziani dalle due parti. Era la mattina del 13 maggio 1654, quando spuntato appena il giorno Murad mosse con buona ordinanza, favorito dalla corrente dell’acqua e da prospero vento. Stavano in terra schierate molte milizie con palischermi e caicchi lungo le rive per portar rinforzi di gente ove il bisogno richiedesse. Il Delfino, bene avvedendosi che a tanta superiorità di forze invano avrebbe tentato d’impedire l’uscita, prese altro divisamento e fu quello di ordinare ai suoi di tenersi fermi sull’ancora, lasciar passare metà dell’armata nemica, poi ad un suo cenno tagliate le gomene gettarsi improvvisamente tra essa, e seguendola con lo stesso favore del vento e della corrente batterla e sgominarla. Ma accadde che dodici delle navi avendo levate le ancore prima del tempo furono dalla corrente trasportate fuori dello stretto, strascinandosi dietro le galere a cui erano legate, sicché solo quattro navi, due galeazze e due galee restarono al posto; una di queste da molte turche assalita, dopo aspro conflitto venne nelle mani del nemico. La nave di Daniel Morosini più avanzata delle altre e la prima ad essere assalita seppe sì bene difendersi che non solo poté obbligare il nemico ad allargarsi, ma prese inoltre una delle sue galere continuando a valorosamente difendersi contro quattro navi di Barbaria fattesele addosso per modo che, non riuscendo quelle a superarla per le armi, vi appiccarono il fuoco. Nello scoppio della polveriera il Morosini con alcuni pochi poté salvarsi in una barca, ma poi incappando nei legni turchi fu fatto prigioniero.

Illustri fatti del capitano Daniele Delfino

Altro combattimento e dei più degni di celebrità negli annali delle guerre marittime avveniva sulla capitana San Giorgio grande comandata dal Delfino. Assalita da quattro navi di Barbaria e da due cosi dette sultane, raccolti in sé i pochi superstiti della galea del Morosini perita al suo fianco, si apprestava a sostenere con la sola sua nave tutto lo sforzo nemico. Lanciando fuoco da tutte le parti, difendendosi con il ferro da quanti volevano abbordarla, rotto l’albero, squarciate le vele, spezzato il timone, con l’acqua che entrava abbondante, tuttavia resisteva, tuttavia teneva lontano il nemico, e lasciandosi trasportare dalla corrente, usciva salva dallo stretto fra mezzo ai nemici attoniti di si prodigioso valore. Fuori del canale fu dall’acqua e dal vento spinta tutta sdruscita verso terra, ove temendo di rompere gettò la sola ancora che le restava e preso breve respiro, rassettato in fretta il timone, otturati i buchi sott’acqua, si dispose, assalita dai Turchi, a nuovo conflitto. Giurarono tutti di morire combattendo piuttosto che ornare tra le catene il trionfo del nemico, e all’ultimo estremo incendiare la nave. Così preparati si facevano quei valorosi incontro alla flotta turca, e da tutti gli assalti bravamente difendendosi, riuscirono perfino a prendere una galea all’arrembaggio. Ma allora quattordici altre mossero a ricuperarla, e il Delfino nell’impossibilità di difenderla, spogliatala delle insegne, l’abbandonò, poi proseguendo il viaggio, valendosi di lenzuola e di altri drappi in luogo delle squarciate vele, seguitò le navi che uscite fin da principio dal canale e veduti ardere alcuni legni, aveano creduto tra quelli perita la capitana. Scoperta però allora con grande gioia la malconcia nave del Delfino che le seguiva, allentarono le vele e si fecero ad accoglierla dando altissimi segni di allegrezza, né stancandosi di ammirare il valore spiegato dal capitano e dai suoi. La sera il capudan bascià diede fondo a Troja ferito in un braccio, perduti molti soldati e molti legni. Il Delfino voleva il domani con tutta la squadra assalirlo, ma il vento glielo impedì, e il Turco dopo aver consumato un mese a risarcire la flotta, corse a vettovagliare la Canea, rientrò poi nei Dardanelli, reputandosi a gran fortuna di aver passato l’Arcipelago senza nuova battaglia. Il valore spiegato dai Veneziani in tutta questa guerra ſu stupendo; fu quale neppure le greche e romane storie possono mostrar l’eguale.

Morte del capitano generale Luigi Leonardo Mocenigo

Poco tempo ebbe il Mocenigo per poter illustrare con grandi fatti il suo nuovo comando, poiché dopo aver inseguito e molestato qua e colà il nemico, ammalatosi, approdò a Standia ove rese l’ultimo respiro nell’anno settantesimo primo della sua età, uno dei più distinti generali della Repubblica, di venerabile aspetto, integerrimo negli impieghi, che sebbene non preparato sviluppò rapidamente un ingegno straordinario, e somma attitudine alle cose marittime. Col suo morire restò la flotta affidata a Francesco Morosini provveditore. (1) … segue

(1) SAMUELE ROMANIN. Storia Documentata di Venezia Tomo VII. Tipografia di Pietro Naratovich 1858.

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