Giovanni I Cornaro. Doge XCVI. — Anni 1625-1629

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1718
Sala dello Scrutinio. Domenico Robusti detto Domenico Tintoretto. Ritratto di Giovanni I Cornaro

Giovanni I Cornaro. Doge XCVI. — Anni 1625-1629. (a)

Al defunto Francesco Contarini veniva, il 4 gennaio 1625, dato a successore Giovanni Cornaro, la cui non lunga ducea fu una serie per lui di continuati dolori.

E di vero, incominciando innanzi tratto dalle cose interne, e che più da vicino il toccavano, diremo delle amarezze da lui sofferte a cagione precipua di aver egli, in qualche modo, cercato la esaltazione della propria famiglia; il che diede motivo anche di scandalo e di tumulti, e in fine ad una riforma del Consiglio dei X, che si aveva arrogata un’ autorità oltre i limiti dalle leggi fissati. Lunga però tornerebbe la narrazione minuta di questo fatto, per cui ristringeremo il molto in poco, senza ledere alla integrità della storia, essendo un punto cotesto assai interessante per rilevare l’indole dei tempi, e la decadenza in cui era disceso il governo della Repubblica.

Lo zelo smodato di Reniero Zeno per lo scrupoloso adempimento delle leggi statuite fu la principale cagione dei torbidi, che agitarono fra loro i magistrati più gravi della patria, i quali, deboli o corrotti, mal potevano sopportare il carattere di lui franco e fiero ad un tempo. Egli essendo a Roma ambasciatore presso Gregorio XV, e poi ad Urbano VIII, aveva accusato il cardinale Dolfino di ricevere stipendio da Francia e di altre colpe minori; aveva da colà accennato ad alcuni senatori, siccome contrari]’ agli interessi della Repubblica; e, tornato da quelle sue legazioni, aveva parlato con molto calore contro Antonio Donato, ambasciatore a Torino, che abusava del pubblico denaro. Per ciò aveva disgustato molti nobili aderenti a quelle case; ed in Roma stessa si era mercato l’odio del cardinale Ludovisi, nipote del papa, per gli affari della Valtellina e per altre controversie, sicché poco mancò che non fosse richiamato in patria. Finita la sua missione ritornava festeggiato dagli amici, odiato dai nemici; e appena giunto riusciva, col favore dei primi, ad essere eletto consigliere del doge. Da quel momento lo Zeno si diede a fulminare, anche dalla tribuna, in questo ufficio e negli altri che poi coprì, contro i disordini dell’amministrazione e contro gli abusi di potere, erigendosi, con cittadino coraggio, a vindice delle leggi conculcate; onde un dì venne offeso da Giovanni Da Mula; ed egli, alla sua volta, questi insultò, e tanto che gli fu intimato comparire alle prigioni di Stato; il che non avendo eseguito fu dannato al bando o alla rilevazione in Palma. Ma stette, in quella vece, rinchiuso in casa, e da colà protestava contro la incompetente sentenza: protesta, che non venendo accolta, si vide costretto partire rilegato, per un anno, a Palma. Ivi stette soli quattro mesi, che veniva richiamato per opera di Giulio Contarini; e non appena tornato era eletto del Consiglio dei X, e tosto ricordava le trasgressioni poco prima commesse dal doge alla giurata sua Promissione ducale, intorno al divieto a lui imposto di accettare, cioè, per i suoi figli e nipoti benefizi ecclesiastici; dappoiché appunto i di lui figliuoli Federico e Marcantonio, ottenevano, il primo il cardinalato e la sede vescovile di Bergamo, il secondo, il primicerato di San Marco; ed ambedue poi licenza e denari per poter recarsi a Roma, contro le leggi. Altri due suoi figliuoli, Francesco ed Alvise conseguivano di essere nominati senatori, anche ciò in onta alla legge 10 febbraio 1252. Dal fatto ricordo, lo Zeno passava a rimostranze più gravi, sebbene rispettose, contro del doge stesso, il quale, addolorato, si lagnava, scusandosi in quanto a benefizi ottenuti dai primi due suoi figliuoli, e per i secondi ordinava che fossero eletti altri in senato in luogo di quelli. Continuando però le declamazioni dello Zeno contro il doge per questi ed altri riguardi, ne venne un attrito di amare questioni nel seno dei Dieci e nel Maggior Consiglio, per modo, che la veemenza spiegata dallo Zeno stesso gli suscitò l’odio efferato di molti, ed in particolare di Giorgio, altro figlio del doge. Il quale, unitosi con altri quattro, la sera del 30 dicembre 1627, assalì lo Zeno nell’atrio della porta della Carta, nel mentre egli intrattenevasi a colloquio col suo collega Pietro Sagredo; e con parecchi colpi di breve mannaia il feriva, sicché caduto sopra una panchetta, credendolo morto, il lasciarono, fuggendo a salvarsi nelle stanze del doge. Riavutosi lo Zeno, ebbe forza di correre e di montare in una barca, che alle rive del Palazzo ducale per avventura si trovava, facendosi condurre nella vicina casa di Francesco Donà suo cognato. Non e a dire il vivo sdegno eccitato generalmente da questo tragico caso, e più quando si presentava il figlio del tradito, coi parenti, al Consiglio dei X a chieder giustizia, recando seco le vesti lacere e insanguinate del padre. Perciò fu tosto pubblicato un bando, con la promessa di ricco premio a chi scoprisse l’autore del misfatto. Ma il reo principale, Giorgio Cornaro, fuggiva, ed era bandito perpetuamente, con la perdita della nobiltà e dell’avere; e vennero banditi anche due suoi famigliari e due gondolieri che gli porsero mano al delitto. Sennonché la confisca dei beni non ebbe effetto, avendosi lasciato tempo ai Cornaro di provvedere ai fatti loro, e Giorgio, riparandosi nella vicina Ferrara, queste ed altre cose minori davano giusto motivo allo Zeno, già risanato, di alzare alte querele al Consiglio dei X, il quale rispondeva a quei richiami, essere egli uomo torbido ed inquieto, volente, per lontani sospetti, ruinare nobili onorati, assomigliandolo alcuni a Dionigi Siracusano, il quale per consimili arti era riuscito a divenire tiranno della sua patria.

Eletto poscia nel luglio 1628, lo Zeno stesso fra capi del Consiglio dei X, gli fu intimato doversi astenere dal promuovere discorso, o trattazione intorno a materie già discusse e deliberate dal Consiglio, e molto più dall’inveire con accuse, con biasimi e denigramenti di persone pubbliche, rimanendogli però libero procedere, in quanto credesse opportuno, nelle vie legali. Tale divieto destò rumore, e lo Zeno osservò silenzio per alquanti giorni; ma finalmente mandò a leggere al Maggior Consiglio una scritta, nella quale manifestava, che quel dì stesso, 23 luglio, intendeva discorrere intorno alla Promissione ducale, infranta dal doge. Parlò quindi lo Zeno, nel detto Consiglio, contro l’antecedente intimazione a lui fatta dai Dieci; parlò delle commesse violazioni alle leggi, e sì incalzò il suo dire, che a contraddirlo surse Paolo Basadonna suo collega, e ne nacque un conflitto di parole, a cui prese parte anche il doge, infinché, scioltosi il Consiglio, fu deliberato, nelle ore vespertine di quello stesso giorno, dai Dieci, di arrestare lo Zeno non trovandolo, fu proclamato ordine che egli si presentasse entro tre giorni.

Nuovo e più alto rumore destarono questi fatti per la città, né essendosi lo Zeno presentato, si mandò al bando per dicci anni, per cui maggiormente crebbe l’irritamento generale contro i Dieci, dicendosi non doversi più tollerare un Consiglio, che rendevasi colpevole di tali esorbitanze; doversi limitarne il potere secondo le antiche leggi, onde fosse subordinato al Maggior Consiglio; essere per assoluto necessaria una riforma. In varie opinioni si dividevano gli animi però intorno alle desiderate correzioni; nel mentre che altri, e questi erano i nemici dello Zeno, assai potenti, sostenevano non doversi fare alcuna riforma; essere chi la promoveva fazionario e sedizioso, cercare novità perigliose.

Nel mezzo di questi contrasti avvenne altro caso acconcio a mettere vieppiù in fondo il Consiglio dei Dieci; e fu, che nel canale della Giudecca furono scaricati, contro Benedetto Soranzo, alcuni colpi di archibugio, mentre smontava di barca alla sua riva a San Biagio, e se ne scoprirono autori Angelo Cornaro e Marino Badoaro. Né per questo i Dieci si davano premura di raccogliersi onde procedere contro i rei, giacché il Cornaro era stretto parente del doge. Perciò ne nacquero malumori, intercettazioni di nomine agli uffizi vacanti, indugi nel procedimento degli affari governativi; per cui i capi dei Dieci finalmente si piegarono a nominare cinque correttori per rivedere i capitolari del Consiglio, tempo dodici giorni. Durante i quali, Bertuccio Contarini, salita la bigoncia in Maggior Consiglio, con lunga ma eloquente perorazione, dimostrò illegale la condanna dello Zeno, sicché, vinta la parte proposta, si richiamò lo Zeno, e venuto fu accolto fra gli applausi del popolo adunato intorno alla sua abitazione.

Intanto le discussioni sulla riforma, a cui prese parte anche lo stesso Zeno con la solita sua veemenza, onde veniva richiamato all’ordine da Nicolò Contarini, uno dei correttori eletti. Finalmente, dopo tanto battagliar di opinioni, fu presa la parte, il dì 25 settembre 1628, che fissava chiaramente al Consiglio dei X le sue attribuzioni, oltre le quali gli era proibito ingerirsi senza espressa deliberazione del Maggior Consiglio, che solo, si diceva in essa parte, può dar regola e forma a tutti gli altri magistrati della Repubblica.

Per tal modo ebbe fine l’affare della regolazione del Consiglio dei Dieci, che terminò con la conferma quasi totale della sua autorità, e con la cessazione della Zonta, od aggiunta, e con la nomina non più perpetua, ma a tempo dei suoi segretari, da essere approvata dal Senato; e da tanto tumulto derivò sì poco effetto, ché i Dieci presto poterono oltrepassare i limiti a loro imposti, per cui nuove regolazioni fecero duopo, mosse dalla gelosia degli altri magistrati, e per impedire che il governo non si riducesse nelle mani d’ un solo corpo oligarchico.

Ora alle cose esterne passando, e prima agli affari della Valtellina, diremo, che maggiormente si imbrogliavano, e più da quando montava al potere nella corte di Francia il celebre cardinale Richelieu. Il quale, mandato in Svizzera il marchese di Coeuvres, scorgendo questo come il papa non pensava a restituire il deposito, che gli Spagnoli vedevano prolungarsi volentieri nelle sue mani, entrò improvvisamente, alla testa di diecimila Francesi e Svizzeri protestanti, nella Valtellina, ne cacciò le milizie del papa, e fortificò i passi verso il Tirolo. Da qui ne nacque una serie di fatti cui lungo sarebbe di troppo il narrare. Un congresso tenutosi in Avignone dagli alleati deliberava di stringere una lega per la reintegrazione della Rezia, per la libertà d’Italia e d’Alemagna, per la restituzione del Palatino sul trono. Armi francesi si rivolgevano contro Riva, ancora occupata dagli Spagnoli, e questi operavano a repulsarle. Un’impresa, a cui si opponeva la Repubblica, contro Genova, si tentava da Francia e Savoia; ma alla fine, sia per proprio arbitrio, come veniva annunziato, ovveramente con intelligenza di Richelieu, il conte di Fargis, ambasciatore di Francia a Madrid, conchiudeva con il consiglio di Spagna, il 5 marzo 1626, un trattato, detto di Monson, per il quale i re di Spagna e di Francia rimettevano le cose dei Grigioni, dei Valtellini, di Bormio e Chiavenna, nello stato in che si trovavano prima dei torbidi del 1617, annullando tutti i trattati susseguenti.

Ciò tutto si era fatto senza saputa della Repubblica, la quale mosse alta querela, e lagni del pari muovevano gli altri confederati; ed a quietarli Richelieu si scusava alla meglio, e, mostrando di rifiutare il primo trattato del Fargis, ne conchiudeva un altro poco diverso; in fine, dando buone promesse a quello ed a questo, aveano termine le tribolazioni della Valtellina, non senza lasciare però il germe pericoloso di altri rivolgimenti nell’avvenire; e Spagna ne usciva con condizioni più onorevoli che non avesse sperato, se più sincero stato fosse il procedere di Francia.

Anche col papa, di questi anni, sorsero alcune dissensioni per i dazi e per la libera navigazione del Golfo, che la Repubblica volle sempre gelosamente serbarsi: ne accaddero per i dipinti figuranti la storia di Alessandro III, che con analoga iscrizione esistevano nel palazzo del Vaticano, e che il papa aveva fatto togliere siccome documento, in qualche modo, dei diritti vantati sul mare dalla Repubblica; in fine a motivo del console veneziano in Ancona, il cui zelo nel proteggere il commercio del suo governo fece sorgere gravi disgusti fra Roma e Venezia. Sennonché, passato alla seconda vita Urbano VIII, il successore Innocenzo X fece spontaneamente rimettere i dipinti a luogo, e pacificamente appianò le altre discordie.

La guerra però che andavasi preparando per la successione al trono di Mantova, principalmente fra Spagna e Savoia, metteva in gran pensiero la Repubblica, la quale si affaticava presso tutte le corti, onde ridurre le cose a pace; ma tornando vuoti di effetto i nobili suoi sforzi, già la guerra rompeva, e truppe piemontesi e spagnole irrompevano all’acquisto del ducato di Mantova. Si vide quindi in necessità la Repubblica di soccorrere Carlo di Nevers, uscito di un ramo dei Gonzaga, e già divenuto duca di Mantova. Sollecitata, innanzi tratto, la composizione di una lega con Francia e col papa: e poiché quella spediva un secondo esercito (ché il primo era stato rotto da Carlo Emmanuele ai passi della valle di Vraita), con alla testa lo stesso re Luigi XIII ed il cardinale Richelieu, ordinava il Senato al provveditore generale, Zaccaria Sagredo, di unire le sue alle milizie di Mantova, onde operare alla liberazione di Casale assediato. Allora il duca di Savoia pensò ritirarsi dalla sua unione cogli Spagnoli, e accordarsi, almeno per il momento, con Francia, sicché a Susa conchiuse un trattato, per il quale si obbligava, tra le altre cose, di dare libero passo alle genti del re; di fare che il governatore di Milano sciogliesse l’assedio di Casale e ritirasse le sue genti dal Monferrato, lasciandone al duca di Mantova libero il possesso, tranne alcune terre. Ed il re prometteva di prendere in protezione Carlo Emmanuele, e difenderlo contro Spagna. Una lega difensiva fu quindi stabilita l’ 8 aprile 1629, duratura sei anni, tra il Papa, Francia, Venezia e Mantova, alla quale promise aderire anche Savoia, alfine di proteggere i loro confederati, e procurare la pace d’Italia e di tutta la cristianità. Sennonché per i nuovi movimenti degli Ugonotti, nel mezzogiorno della Francia, partiti improvvisamente il re ed il cardinale d’Italia, con la maggior parte dell’esercito, lasciava esposta la Repubblica alle ire dei Tedeschi, i quali facevano tosto marciare le loro truppe verso lo Stato di Milano, accingendosi ad altri grandi preparativi di guerra. Per cui la Repubblica, con tutta alacrità, si poneva anche essa sulle armi; procurava impedire i maneggi di tregua tra gli Stati di Olanda e di Spagna; animava gli Svizzeri a perseverare nella unione per la comune libertà, e a mettere in piedi diecimila fanti e mille cavalli, promettendo loro sussidi di danaro; sollecitava, in fine, la Francia ad accorrer di nuovo, con maggiori forze, in aiuto.

Inutili ancora essendo tornate le pratiche fatte presso l’imperatore, e le rimostranze del nunzio apostolico; il Senato ordinava al provveditore generale di terraferma, Francesco Erizzo, di muovere in soccorso di Mantova minacciata, e specialmente del paese oltre Po, e di porsi in accordo col duca e coi capitani pratici dei luoghi.

Irrompevano frattanto le milizie alemanne nella Valtellina, e da questa nel Milanese, ovunque spargendo desolazione e lutto; e a colmo dei mali, con la carestia, scoppiava la peste, una fra le più micidiali che avessero mai infierito in Italia. Né per questo la Repubblica allentava i sussidi al duca di Mantova, in danaro, genti, artiglierie ed altri argomenti di guerra, compromettendo le proprie provincie, e sacrificandosi per la libertà d’Italia.

Ma già fino dal 23 dicembre dell’anno citato 1629 era venuto a morte doge Giovanni Cornaro, il quale, come abbiamo veduto, ducando non provò che amarezze. Ebbe da Cristoforo Finotti orazione funebre, che va alle stampe, e tomba nella chiesa di S. Nicola da Tolentino (b).

Al suo tempo, cioè nel 1626, si rinnovò dai fondamenti la chiesa di S. Nicolò del Lido, e se ne coniò una medaglia pubblicata da Flamminio Cornaro.

Il ritratto del nostro doge, opera di Domenico Tintoretto, secondo il Ridolfi, reca, sul campo scritta la seguente leggenda, anche questa diversa da quella offerta dal Palazzi, che cosi la riferisce: Vallem Tellinam mea opera liberam reddidi. Frenavi externorum audaciam, Mantuam invi armis, pecuniis, commeatu. Reflanti fortunae restiti, et statum extremum emisi.

IOANNES CORNELIVS QVI PRINPTV VLTRO SIBI A PATRICYS OBLATV, ITA EXERCVIT VT PATRIAE AEMVLATOR COLETIO FVERIT VT ALTER MAGIS BONV PVTO ADAMARET.  (1)

(a) Giovanni Cornaro nacque nel 1554 da Marc’Antonio, e, secondo il Cappellari, dopo di aver sostenuto alcune magistrature, fu eletto, nel 1594, a capitano di Verona, e l’anno dopo, nella stessa qualità, passò a Vicenza. Fu quindi, nel 1597, podestà di Brescia, e negli unni seguenti 1599 e 1604, lo fu anche di Padova. Era savio del Consiglio, quando venuto a morte, Alvise Priuli, venne in suo luogo creato, il 29 maggio 1609, procuratore di S. Marco de supra. Nel 1617, fu provveditore generale dell’ esercito, e nel seguente, come anche nel 1622, sostenne la carica di riformatore dello studio di Padova; e finalmente, il dì 4 gennaio 1625, veniva esaltato al trono ducale, siccome superiormente dicemmo. Dei cinque suoi figli accennati, Federico, dopo aversi dottorato a Padova ed essere stato cavaliere di Malta, gran commendatore e gran priore di Cipro, e vescovo di Bergamo, veniva da Urbano VIII, il 19 gennaio 1626, creato prete cardinale, del titolo di santa Maria Traspontina, poi di S. Marco, indi vescovo di Vicenza, poi vescovo di Padova, e finalmente, nel 1632, eletto patriarca di Venezia, a cui rinunziò nel 1644, ritirandosi a Roma, ove morì nel 1652. Marcantonio, il secondo, fu nel 1619 eletto primicerio di S. Marco, e quindi, nel 1633, passò vescovo di Padova, morto nel 1636. Il terzo, Luigi, cavaliere, fu, nel 1620, ambasciatore residente alla corte di Spagna, ed era versatissimo nella filosofia, teologia e nelle belle lettere latine e volgari. Il quarto, Francesco, sostenne varie ambascerie, ed ottenne da ultimo il supremo onor della patria, dopo la morte del doge Carlo Contarini, come in seguito vedremo. L’ultimo, Giorgio, giusta quanto riferimmo, fu bandito, e ritiratosi a Ferrara, ivi poscia fu ucciso.

(b) Il monumento del doge Gio. Cornaro era stato creato per disposizione dell’altro doge suo figlio Francesco, e venne mandato ad effetto da Federico, figliuolo di questo, senatore e cavaliere, nel 1656. Due inscrizioni, riportate dal Martinioni, continuatore del Sansovino, e dal Palazzi, ciò dicevano; ma in seguito, cioé nel 1720, per volere dell’ altro doge Giovanni II Cornaro, fu totalmente con il monumento rinnovata la cappella, e si levarono ambedue quelle inscrizioni. Si ornarono quindi i lati della cappella stessa con due barocchi monumenti, eguali fra loro, costituiti da una quasi piramide sulla cui sommità sono collocati vasi cinerari, e per lato lungo le tre ricorrenze, in cui sono divise le piramidi, furono posti tre busti per lato, in tutti dodici, cioè sei per ogni lato dell’altare, figuranti i principali personaggi della casa Cornaro. Quindi in cornu evangelii, incominciando internamente e dall’alto, si vede il busto del doge Marco Cornaro, e sotto scritto: marcvs dvx creatvs 1365 obiit 1368. Sotto a questo è il busto di Francesco, creato cardinale da Clemente VII, e più sotto, quello di Federico seniore, eletto cardinale da Sisto V.  Dall’opposta parte è primo il busto di Marco, promosso al cardinalato da Alessandro VI; secondo è quello di Francesco, fatto cardinale da Clemente VII; ed ultimo vedesi l’altro di Luigi, assunto alla porpora cardinalizia da Giulio III. Dall’altra parte dell’altare, a sinistra dell’osservatore, incominciando dall’alto, primo è il busto del cardinale Francesco, eletto da Clemente VIII: secondo è l’altro di Federico juniore, cardinale sotto Urbano VIII, e l’ultimo vedesi Giorgio, elevato alla porpora da Innocenzo XII; a destra poi di chi guarda, sono tre busti: 1.° di Giovanni doge, che è il nostro, sotto cui è scritto : I0ANNES DUX, FRANC. CAR. FRATER CR.s 1624. OB. 1629 ; 2.° di Francesco doge, figlio di Giovanni, e si legge: FRANCISCUS DUX, CARD, FRATER CR.s 1656; e finalmente è il busto del doge ordinatore Giovanni II, sott’esso il quale è scritto IOANNES DUX. GEORGY CARD.s FRATER CR.s 1709. Nello specchio della base della prima piramide, è, in bassorilievo, scolpita la rinunzia del regno di Cipro fatta da Caterina Cornaro, in mano del doge Agostino Barbarigo, con la data MXD; e nello specchio della seconda piramide, è in alto rilievo scolpita l’ inscrizione IOANNES DUX P. MDCCXX. L’opera è tutta di marmo carrarese, meno le specchiature, che sono rimesse in bardiglio.

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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