La giustizia a Venezia; gli avvocati
Il campo di Santa Maria Zobenigo, quello di San Maurizio e l’altro di Sant’Angelo ma più specialmente le calli adiacenti e la calle degli Avvocati erano nei due ultimi secoli della Repubblica, le località preferite dove, quasi vecchia consuetudine, abitavano in maggior numero gli avvocati.
La pratica forense fu a Venezia in ogni tempo di specchiata onoratezza ed equanimità e la legislazione fu per quei tempi mirabile, così da conferire una reputazione tanto alta alla Serenissima di essere molte volte arbitra nelle controversie d’altri paesi, e le curie lontane solevano commettere ai giudici veneziani la decisione delle più gravi questioni con la frase: “Eamus ad bonos Venetos“.
I patrizi che prendevano la laurea nelle discipline giuridiche presso l’Università di Padova, ascrivevano a grande onore il dottorato e sedevano nei comizi in un posto a parte.
Francesco Sansovino nella prima metà del cinquecento enumera nel suo celebre libro “Venetia città nobilissima” i migliori oratori di quei giorni tra i quali primeggiava Dionisio Contarini, chiamato con l’usanza parolaia del tempo “un nuovo Socrate“. Pietro Badoaro fu detto “un nuovo Cicerone“, Pietro Badoaro fu detto un altro Cicerone; sier Giovanni Donato cognominato delle “Renghe“, arringhe, ebbe gran fama specialmente nelle cause civili; e fra quelli che perorarono dinanzi ai magistrati furono celebratissimi il padovano Speroni e il vicentino Trissino nonché il veronese Giampaolo.
Dinanzi alla Quarantia, particolarmente civile, ciascuna delle due parti aveva per consuetudine due avvocati, sopra uno sgabello davanti ai giudici, un fante poneva una piccola clessidra, chiamata “mezzarola” con la finissima sabbia detta da ore, perché nel passare da un recipiente all’altro la sabbia ci metteva esattamente un’ora e il fante quando la clessidra cominciava a segnare il tempo gridava: “va la messarola“, e poi va “la seconda, la terza, la quarta“, e appunto quattro mezzarole formavano lo spazio di un’ora, quanto al massimo doveva durare l’arringa defensionale dell’avvocato.
Il numero degli avvocati sotto la Repubblica era indeterminato, però dovevano esser nati nello Stato, o aver domicilio per lo meno quindici anni con le loro famiglie a Venezia, dovevano essere addottorati allo studio di Padova e provare di aver frequentato per quattro anni lo studio di un avvocato già in carriera. Il Maggior Consiglio eleggeva e stipendiava trentadue avvocati tra i migliori perché esercitassero la loro professione in favore dei poveri; sei erano destinati nei Consigli di Quarantia, diciotto per i tribunali di prima istanza che si chiamavano “avocati per le Corti“, sei per gli Uffizi di Rialto e due per i carcerati.
Forse questi ultimi erano i più popolari, i più conosciuti, i più simpatici, per il loro lavoro sempre attivo che non ammetteva dilazioni; ogni giorno dovevano visitare le prigioni dei Signori di notte e le prigioni “da bassa del palazzo“, il mercoledì e il sabato le carceri di Rialto e i “casoni” sparsi per le contrade ricercando se qualcuno avesse bisogno del loro aiuto, del loro patrocinio, della loro protezione, ascoltando le loro lagnanze che riportavano alla Signoria, indagando sullo stato della loro salute e se del caso chiamando il medico sempre a loro disposizione.
Questi avvocati eletti e pagati dal Maggior Consiglio erano in sostanza una forma, più ampia, di gratuito patrocinio che si avvicina all’attuale, con questa differenza importantissima che allora la scelta cadeva tra i migliori del foro, primi per pratica e per dottrina, mentre oggi è fatto palestra assai spesso di giovani inesperti. L’opera dell’avvocato ritrovava un altro compenso nel plauso popolare, in quei casi nei quali miserabili imputati di gravi delitti erano condannati dai Signori di notte a pena capitale o a mutilazione di membra; il reo era allora assistito dal suo difensore sia davanti al magistrato del Proprio per ottenere il permesso di appellare, sia in sede di appello avanti la Quarantia ciminale.
A mezzo il Settecento destarono vivo interesse nel pubblico le orazioni di Leopoldo Curti, celebre avvocato, che riuscì a staccare dalle forche Francesco Obrelli “solito a conciar ventole in Casselleria“, vecchio ladro, condannato, dopo venti anni d’impunità, dai Signori di notte al criminale ad essere impiccato per la gola fra le due colonne di San Marco. Le arringhe del Curti furono tre: la prima pronunciata davanti ai giudici del Proprio nella sala dello Scrutinio, le altre due innanzi alla Quarantia Criminale nella grande sala del Maggior Consiglio e furono mirabili per profondità di logica, per sapienza, per analisi, per convinzione.
Con la caduta della Repubblica scomparve anche il gratuito patrocinio veneziano che in confronto dell’attuale rappresentava una tutela più ampia, funzionari scelti retribuiti equamente, una tutela non occasionale, ma purtroppo non era più il tempo in cui gli stranieri dicevano: “Eamus ad bonos venetos“. (1)
(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 8 luglio 1934.
Dall’alto in basso, da sinistra a destra: Calle dei Avocati, Calle dei Avocati, Campo Santa Maria Zobenigo, Campo San Maurizio, Campo Santa Maria Zobenigo, Campo San Maurizio, Campo San Maurizio
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