Jacopo Contarini. Doge XLVII. Anni 1275-1280

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1936

Jacopo Contarini. Doge XLVII. Anni 1275-1280

Prima di passare alla elezione del nuovo doge, i correttori della promissione ducale, ristrinsero nuovamente i di lui poteri. Si vietava a lui di ricever feudi né per sé, né per i propri figliuoli; dovesse anzi rinunziare a quelli che per avventura possedesse al momento della sua esaltazione: non contrar prestiti né sé, né i figli e nipoti: non menare a moglie donna forestiera, senza acconsentimento del Consiglio: non acquistar terre fuori del dogado: ciò tutto fosse per comperare la sua famiglia, dovesse esser soddisfatto entro otto giorni: ogni due mesi, dovesse farsi leggere il suo capitolare: non prendere parte per alcuno, al caso insorgessero contese: dare opera affinché entro un mese dalla loro prigionia, gli imputati fossero giudicati dalle competenti magistrature: proibito ai figli di avere alcun governo, capitanato o signoria; e alla moglie, figliuole e nipoti di donare cosa alcuna ai cittadini. Ciò statuito, veniva eletto il dì 16 settembre 1275, l’ottuagenario Jacopo Contarmi.

La discordia con gli Anconetani, per reciproche violenze accadute nel Golfo, era giunta a tale da far prevedere imminente la guerra. Né a comporre gli animi alla pace valsero i buoni uffici del Pontefice, né gli oratori inviatisi scambievolmente, che, non volendo piegarsi né una parte né l’altra, fu duopo venire alla decisione delle armi.

Giovanni Tiepolo, con tredici galee, secondo il Dandolo, e secondo il Sanudo, prima con cinque, poi con altre quindici, comandate da Marco Michieli, e quindi con sei ancora cariche di macchine ossidionali, si spedivano sotto Ancona. Incominciato l’assalto, una furiosa burrasca sopraggiunta fece che la flotta veneziana venisse respinta nell’alto mare, sicché poi ruppe in parte nelle prossime coste, ed in parte poté a stento ricoverarsi nei porti della Dalmazia. Nuovi rinforzi spediti colà, ignari della fortuna patita dalla flotta, avanzatisi francamente sotto Ancona, furono menomati di due galee, cadute in mano ai nemici.

Fu grande il dolore in Venezia allorché si seppe tanta sventura, e a rendere i capitani sul mare più accorti e solleciti della salute e della gloria dell’armi cittadine, si statuì, che dovessero, in seguito, gli sconfitti tornare alla patria con nota d’infamia, e fossero dannati a pagare cento marche d’argento.

Donata frattanto Ancona, con le terre di Romagna, dall’imperatore Rodolfo a Nicolò III, si recarono a lui siccome ambasciatori, nella sua esaltazione al pontificato, Marco Badoaro, Andrea Zeno e Gilberto Dandolo, i quali, non potendo dimettere le pretensioni che aveva la Repubblica sopra di Ancona, ebbero sdegnoso commiato. Perciò si continuò con vario successo la guerra, durante tutto il reggimento del doge Contarini guerra che diede a parecchie città dell’Istria occasione di prevalersi, per rifiutare il pattuito tributo, e porsi sotto il protettorato del patriarca di Aquileia, Raimondo dalla Torre. A rimetterle nella prima obbedienza fu spedito Andea Baseggio con la flotta, il quale si recò difilato a Capodistria per oppugnarla. Ma essendo munita fortemente con le milizie del patriarca ora detto, fu bisogno d’ inviare colà altri navigli ed altre genti; quelli capitanati da Marco Cornaro, e queste da Jacopo Tiepolo. Cadde alla fine, e furono demolite le mura, e mandati Rinieri Morosini, siccome podestà e capitano, giusta il Sanudo, e Pietro detto Pierazzo Gradenigo, in qualità di
provveditore.

Domata quella città, vennero tosto a sommettersi Montona, Farra ed altre isole; ma non per questo era tranquilla la Repubblica, sia per la guerra che ardeva contro di Ancona, come dicemmo, e sia per la rivolta di Candia, sostenuta dall’Augusto di Oriente, che mirava al riacquisto di quell’isola. Tale rivolta, due volte e con vari capi mantenuta, non fu spenta del tutto che nel 1294, in cui si venne ad accordo con Alessio Calergi, e quindi nel 1305 a ferma pace.

Tra le varie altre cose accadute nel ducato del Contarmi, notiamo l’invio di Marin Pasqualigo all’imperatore Rodolfo d’Asburgo, per congratularsi delle sue vittorie, e per ottenere la conferma delle assuete franchigie al veneto commercio; le quali conseguì largamente, e con grande dimostrazione di benevolenza. Notiamo anche, come essendosi accresciuta di popolo e di fabbriche l’isola di Murano, per l’arte vetraria, che ivi fioriva, fu eretta quell’isola a podestaria, e speditovi per primo podestà Nicolò Contarmi, dandosi all’arte ora detta regola e norma onde mantenerla ricca e onorata. Da ultimo notiamo, che nel 1277, la peste infierì in Venezia, secondo narra una cronaca antica citata dal Gallicciolli.

Domato dagli anni, e resosi doge Jacopo incapace a governare, sicché ne sosteneva le sue veci il consigliere anziano Nicolò Navigaioso, si determinò di rinunziare alla dignità il dì 5, o, come dice il Sanudo, il 6 marzo 1280, ritirandosi nelle case dei Boccasi a San Luca, ove morì il 6 dell’aprile susseguente. La Repubblica, con nuovo esempio, gli aveva assegnato lire millecinquecento di piccoli, circa cinquecento zecchini, all’anno sua vita durante.

Veniva tumulato nel chiostro di Santa Maria dei Frari, entro un’urna dorata, ove, giusta il Sanudo, era lavorato di musaico il doge e la dogaressa in ginocchioni col seguente epitaffio, molto triviale.

ANNO DOMINI MCCLXXX. INDICTIONE VIII MENSE APRILIS, DIE VI. INTRANTE. HEIC REQVIESCIT DOMINVS JACOBVS CONTARENVS DVX INCLYTVS VENETIARVM, ET DOMINA JACOBINA EJVS VXOR DVCISSA.

Il ritratto del nostro doge tiene nella destra un breve che dice, d’accordo con il Sanudo, e non col Sansovino e col Palazzi, che mutarono il vocabolo frenis in quello di regnis:

FIT IVSTINOPOLIS VENETORVM SVBDITA FRENIS. (1)

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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