I frati di San Sebastiano e la peste del 1630

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Chiesa ed ex Convento di San Sebastiano. Sestiere di Dorsoduro

I frati di San Sebastiano e la peste del 1630

Appena scoppiata la peste a Venezia nel 1630, portata sembra dal seguito del marchese di Strigis ambasciatore del Duca di Mantova, una terribile paura invase i monaci del convento di San Sebastiano, che s’innalzava accanto al “rio di San Basegio” nella parrocchia di San Raffaele, uno dei più ricchi conventi della Serenissima. I monaci erano dell’ordine degli Eremiti, fondato dal beato Pietro Gambacurta da Pisa, e ai primi allarmi della pestilenza tirarono fuori dai tabernacoli tutte le sante reliquie per scongiurare il pericolo, e fra queste anche quella lasciata dal celebre diarista Marin Sanudo con il suo testamento in atti di Girolamo Canal il 4 settembre 1533: “lasso alla Chiesa di san Sebastian una dignissima reliquia ch’è uno osso de misser san Sabastian qual havia la Dogaressa da cha Moro fo da cha Sanudo, et la casa nostra sempre è sta preservada di peste“.

Ma purtroppo né le reliquie, né l’osso di San Sebastiano protessero il convento dal terribile flagello ed il dodici ottobre moriva il padre Teonisto veneziano e due giorni dopo frate Matteo moriva nella scoletta di San Bastian dove si era rinchiuso per paura del contagio, con il converso frate Giovanniet ai quali davano i viveri per un buso della caneva“.

Con queste morti la paura aumentò nel convento, molti frati fuggirono da Venezia ed il padre Grazioso Carboni scappò con fra’ Marcantonio converso riparando nel possedimento conventuale dell’Olmeo, ma qui, racconta una cronaca del Salanello, preso da forte malinconia si cacciò un coltello nella gola “et morse subito“.

Il padre Pio Trevisan, celebre predicatore, fu colpito dalla peste, ma guarì in breve tempo e corse allora la voce che egli avesse pregato a lungo vicino alla reliquia di San Sebastiano lasciata dal Sanudo. La notizia si sparse per la città, e fu subito un grande accorrere di gente a visitare la chiesa, e giorno e notte vi erano processioni “et offerte grandissime“, ma il Magistrato sopra la Sanità, visto il pericolo di quel grande affollamento, pensò bene di chiudere la chiesa.

Nel convento di San Bastian, alla fine del morbo, non rimasero che cinque frati, fra i quali Salanello il cronista; tutti gli altri, circa una trentina, erano morti o fuggiti. E Salanello conclude la sua cronaca: “chi si troverà ancora in tempo di peste non vadi mai fuori di casa, et li superiori facciano le provisioni di mangiar in casa et li serrino; altrimenti moriranno dalla peste. Et la nostra esperentia ce l’ha fatto veder“. (1)

Testo di un’iscrizione murata sulla facciata della Chiesa di San Sebastiano riguardante la peste del 1630:

ANNO MDCXXX
DVM TOTA HEC CIVITAS MORBO PESTILENTIALI LABORARET
SAEVAQ LVES VNDEQVAD MISEROS CIVES INVADERET
NEC ALIVD QVAM INTER MORIENTES MORTVI
AC INTER MORTVOS MORITVM OB OCVLOS
APPARERET POPVLVS DEVOTVS AD HANC ACCLESIAM
CVCVRRIT DIVO SEBASTIANO SVPPLICITER SE
VOVIT SICQ AB OMNI CORRVPTIONE SERVATVS
PRISTINAE SANITATIS COMPOS FACTVS EST
ANNO MDCXXXI. XXI NOV
SER.MO FRANC.O ERIZZO DVCE

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 5 giugno 1924.

 

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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