Gli ambasciatori a Costantinopoli

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Giovanni Grevembroch. Gli abiti de Veneziani di quasi ogni età con diligenza raccolti e dipinti nel secolo XVIII. Bailo

Gli ambasciatori a Costantinopoli

Essere eletto Bailo (ambasciatore) a Costantinopoli equivaleva nella via delle legazioni alla suprema dignità cui potesse aspirare un patrizio veneto, poiché Costantinopoli per le sue relazioni con Venezia era la più importante sede d’ambasciata di carattere propriamente diplomatico. E Venezia eleggeva a tale ufficio i suoi migliori patrizi per carattere, intelligenza e perizia, ed assegnava loro una tale magnificenza di apparato che potesse, nelle menti orientali, collegare la ricchezza e la potenza alla grandezza della repubblica.

A messer Girolamo Lippomano nel 1589 fu dato uno stipendio mensile di 180 ducati d’oro (somma ingente a quei tempi), pari a circa lire italiane duemila, “et una sovventione annua di ducati 900 d’oro per le sue spese, et per comprar cavalli e coperte ducati trecento“.

L’ambasciata, oltre i vari segretari ed assistenti, aveva un medico, un cappellano, due interpreti o dragomanni; come tutela e guardia d’onore della persona erano assegnati al Bailo quattro giannizzeri tra i più forti e valorosi, e teneva per legge dieci servitori e quattro staffieri.

Racconta il Lazzari nelle sue “Relazioni degli Ambasciatori Veneti” che gli abiti del Bailo nei giorni di gala erano splendidi: “una vesta di raso tessuta d’oro gli scendeva fino ai piedi, abbottonata al petto, stretta ai fianchi da una cintura di velluto trapunto d’oro. Sopra questo abito indossava un’ampia sopraveste chermesi, foderata di raso bianco l’estate e di rarissime pelli l’inverno. Le scarpe erano di velluto rosso ricamate in oro; in testa portava un berretto di damasco, nel cui mezzo, di sopra al fronte, spiccava un fiore di grossi brillanti“.

Su proposta di Bernardo Navagero, Bailo nel 1553, la Serenissima, per avere dracomanni fedeli, pensò di mandare all’ambasciata di Costantinopoli alcuni giovani veneziani, chiamati “giovani di lingua”, per imparare l’idioma turco, ma fecero cattiva prova ed anzi qualcuno di quei figlioli, sedotto dai lincenziosi costumi turchi, si fece turco, mettendo in pratica la famosa frase di Lorenzo Bernardo, che, scrivendo al Senato, diceva che la vita voluttuosa della capitale turca era capace di “far di un santo un diavolo”.

In confronto degli altri ambasciatori il Bailo di Venezia aveva privilegi speciali: importantissimo il banchetto che gli dava il Sultano nel Serraglio ed a cui la Repubblica ci teneva assai. Infatti essendo il Bailo Giovanni Moro giunto a Costantinopoli nell’epoca del “Bairan”, grande digiuno turco di quaranta gironi in cui non si mangia che ala notte, il banchetto era alquanto incerto, ma il Senato che aveva già provveduto la difficoltà così gli scriveva: “Il banchetto si deve averlo: che se dicessero che è cosa straordinaria, e voi donate qualzhe cosa straordinariamente, domando al MAgnifico Bassà (primo ministro) fino alla somma di ducati 500 d’oro”

Così fu, ed il Bailo della Serenissima ebbe il banchetto.

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 23 ottobre 1934.

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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