L’elezione di Lodovico Manin l’ultimo doge
Era morto il 2 marzo il doge Andrea Renier e fervevano nel Maggior Consiglio le operazioni di voto per l’elezione del nuovo doge. Sulle colonne delle procuratie erano attaccati numerosi cartellini che indicavano le varie e molteplici votazioni, con la scritta ammonitrice a grossi caratteri: Abasso el broglio. La folla leggeva e commentava.
I concorrenti erano molti fra i quali Nicolò Contarini, Alvise Tiepolo, Piero Gradenigo di scarso censo o di manchevoli qualità personali, Lodovico Manin di recente nobiltà ma pietoso e benefico, e Sebastiano Mocenigo ricco, d’antica stirpe e non spoglio di meriti, ma bruttato d’ignobile taccia nei costumi, tanto che Maria Teresa ne aveva chiesto l’allontanamento dalla sua corte, ove risiedeva quale ambasciatore, e la Repubblica acconsentendo lo aveva relegato per sette anni nel castello di Brescia.
Così tra la povertà, la palese deficienza e il vizio, i quarantuno scelsero la nobiltà nuova e, chiusi in conclave, elessero il 9 marzo 1789 a doge di Venezia il patrizio Lodovico Manin, ultimo doge, spettatore e partecipe della perdita dell’indipendenza della sua patria.
Grandi furono le feste per il suo innalzamento al soglio ducale, ma tra i cittadini corse allora una curiosa e mai sentita notizia che destò tristezza e rammarico dimostrando palesemente quanta fosse l’incoscienza patrizia in quei tempi difficile. L’elezione del nuovo doge era costata alla serenissima la bellezza di quarantottomila e cinquecento ducati apri a circa duecentomila franchi di Francia, spesa di cui fino ad allora non si conosceva l’eguale. I quarantuno elettori, chiusi in Palazzo Ducale per la nomina definitiva del principe, avevano in due giorni sperperato l’enorme somma soddisfacendo a qualunque loro capriccio, regalando al copioso servitorame, e facendo gozzovigliare parenti ed amici che con pretesi s’introducevano in Palazzo.
Il popolo alla notizia di quella grande ricchezza sciupata, credendo splendore quello che era pazzia, si dette a feste a tripudi coadiuvato nell’esultanza dai patrizi “quasi non vi fosse alcuna disgrazia e tutto andasse felicemente“. Così nelle piazze, nei teatri, nelle strade correva la vita otto anni prima della morte della Repubblica. (1)
(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 20 giugno 1926
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