Il patriziato veneto

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Giambattista Tiepolo. Ritratto del N.H. Daniele Dolfin. Fondazione Querini Stampalia

I patriziato veneto

Si solevano dividere in tre classi, non perché i loro titoli e le loro prerogative fossero differenti, ma per una maggior chiarezza nel riconoscere l’antichità dell’origine loro. La prima classe comprendeva le famiglie dei dodici tribuni che elessero il primo doge. Erano essi i Contarini, i Morosini, i Badoari, i Tiepolo, i Michieli, i Sanudi, i Gradenigo, i Memmo, i Falieri, i Dandolo, i Polani ed i Barozzi. Non cedevano a queste in antichità altre quattro famiglie, che, insieme alle dette dodici, segnarono nell’800 il contratto di fondazione dell’abbazia di San Giorgio Maggiore; per lo che soleva dirsi che se le prime erano i dodici apostoli, le seconde erano i quattro evangelisti: erano esse i Giustiniani, i Cornaro, i Bragadini ed i Bembo. Si annoveravano però a questa prima classe anche altre otto famiglie esistenti molto innanzi al serrar del maggior consiglio, tra cui i Quirini, i Dolfini, i Soranzo, i Zorzi ed i Marcello.

Avvenuta nel 1296, per opera del doge Pietro Gradenigo, la celebre chiusura del maggior consiglio (serrar del maggior consiglio) tutti i nobili che allora vi si trovavano composero la seconda classe, alla quale pur ascritte vennero anche le trenta famiglie aggregate alla nobiltà Veneziana nel 1380, nell’occasione della guerra di Chioggia.

Finalmente si componeva la terza classe di circa ottanta famiglie che acquistarono il patriziato con lo sborso di 100.000 ducati per soccorrere lo stato nei bisogni o della guerra di Candia od in altri incontri posteriori.

C’era però una quarta classe, ed era quella dei nobili fatti per merito. In essa si annoveravano tutte le teste coronato, molti sovrani e principi, varie famiglie illustri di Francia e d’Italia, non che tutti i nipoti dei pontefici da Innocenzo VIII, e di molti segnalati ministri di alcuna potenza. Trovandosi in Venezia, anche quei nobili potevano assumere la veste dei patrizi, entrare nel gran consiglio ed aver diritto ai suffragi.

Nel 1515 fu instituito il libro d’ oro, cioè quel registro nel quale scrivevano quanti avevano diritto alla nobiltà veneziana ed ingresso nel maggior consiglio. L’ ingresso al maggior consiglio era determinato dapprima da tre elettori; ma dando ciò luogo a vari abusi si è decretato che chiunque giungesse all’età dei 25 anni fosse abilitato di entrarvi, dietro l’esame dei suoi titoli fatto dagli avvogadori. Talvolta erano ammessi anche coloro che non fossero arrivati a quell’età; anzi per un tal fine ogni anno, nel giorno di Santa Barbara, ne venivano estratti trenta a sorte dal doge. Però entrar non potevano nel maggior consiglio i nati avanti il matrimonio ancorché per nozze posteriori legittimati; in quel caso prima era mestieri di un processo fatto dagli avvogadori sul quale deliberava il collegio. Ma i figli nati da padre nobile e da donna plebea non erano mai ammessi.

La veste dei nobili, per quanto ci viene fatto d’apprendere dai documenti rimasti, era anticamente ricamata con un manto superiore pur ricamato. Ora la barretta loro era tonda ed adagiata al capo, ora terminava in punta , avendo sul dinanzi, chi fosse costituito in dignità, una cordella incrocicchiata. Ora in capo mettevano i cappucci, i quali pendevano dal la parte di dietro o da uno dei lati, e penzolando giù per le spalle formavano quello che poi si è detto la stola. Di mano in mano nacquero varie modificazioni, fino a che sopravvenuta una malattia occhi, che dall’ignoranza dei medici fu attribuita a quel cappuccio, fu esso levato, e ritenuto solamente il cerchio, a cui il cappuccio medesimo s’applicava, il cerchio fu coperto di panno e si formò quella berretta a tozzo che poscia sempre si è usata. Tagliandosi il lembo del cappuccio che pendeva dal capo lo si fece appoggiare alla spalla e così ne provenne la stola la quale era di tanta larghezza quanto bastasse a coprire il capo in caso di pioggia.

Il secolo XIII ed il secolo XIV fu introdotta la cosi detta dogalina che era una veste a maniche aperte, senza cintura; ma in seguito, ritenute le maniche larghe, le strinsero in bocca per porvi dentro fazzoletti, scritture, ec. e quelle maniche furono dette a comeo. Nell’autunno si adornavano le vesti con strisce di pelli di varo, e nell’inverno di dosso, stringendo le vesti medesime con cintura di velluto, guernita talvolta di sodo argento. Grande arbitrio era in antico circa il colore, usando alcuni il rosato, altri il paonazzo, altri il purpureo. La materia fu o di velluto o di damasco, o di drappo d’ oro senza distinzione; ma una legge del senato del 1651 fissò finalmente che l’abito ordinario di tutti i nobili fosse di panno nero con ampie maniche, restando il pavonazzo ai savi grandi, a quei di terraferma in certe congiunture, agli avvogadori e finalmente ai capi delle quarantie ed ai savi agli ordini la veste pure paonazza con le maniche a comeo. La differenza tra l’estate e l’inverno non era che questa; che nell’estate non si riportava la veste di pelli né si allacciava con la cintura; ma tutta si apriva ed ondeggiava, mentre nell’inverno si stringeva con una cintura di velluto nero orlata di seta e guernita da dodici quadranti d’argento. I senatori nei giorni solenni portavano la veste rossa o di velluto o di damasco, secondo che fosse e inverno od estate.

I giovani non erano obbligati a portare questa veste se non all’età dei venticinque anni in cui entravano nel maggior consiglio; tuttavolta facilmente i genitori ottenevano che potessero portarla anche di quindici anni, da poiché considerava la repubblica questo abito come quello della Religione e come atto più che altro mai a serbare una certa gravità influente a moderar le passioni in sul nascere loro.

Ogni volta che per la morte di un altro o per qualunque motivo un nobile  fosse stato eletto inaspettatamente o procuratore o consigliere del proprio sestiere, od avvogadore, subito era chiamato a sedere nel posto vacante ed era contraddistinto con la stola purpurea.

Sin quasi alla fine del secolo XVI i nobili che fossero stati decorati del titolo di dottore avevano luogo distinto nelle pubbliche adunanze, e sebbene portassero la veste degli altri patrizi, pure stringevano la cintura con fibbie dorate. L’ultimo ad occupare quel posto distinto fu Luigi Pesaro, morto nel 1580 nell’ età di quarantasei anni.

L’ abito di corruccio per la morte di alcun parente era una gran sopravveste nera ed un turbante appuntito in testa; ma quest’ abito si vietava ai senatori nelle pubbliche comparse, nelle quali per segno di mestizia portavano solo una stola di velluto paonazzo. Cessava però al tutto la mestizia all’arrivo in Venezia di alcun estero potentato, o nel caso di contagio.

Il giovane nobile, prima entrare nel mondo, vestiva negli ultimi tempi in cappa, la quale era un sotto-abito corto ricoperto nel davanti da una specie di grembiulino (volgarmente detto groppiglia), tutto guarnito di merli neri, e da un mantello corto che aveva da tre a quattro liste di merli inferiormente. Quel vestito annunziava il prossimo scioglimento di un nobile dalla severa custodia paterna, ed il vicino suo ingresso nel maggior consiglio, e nei doveri quindi di repubblicano. (1)

(1) ERMOLAO PAOLETTI. Il fiore di Venezia. I quadri, i monumenti, le vedute ed i costumi veneziani. Vol IV (Venezia, Tommaso Fontana Tipografico Edit., 1840).

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