Le Pubbliche andate del doge
Di due specie erano le comparse pubbliche del doge; quelle trionfali e quelle private, occasionate, sia le une come le altre per celebrare alcune solennità ecclesiastiche e civili tendenti a mantenere nel popolo la memoria dei fasti della patria.
Il corteggio ducale nelle trionfali comparse era il seguente: primi venivano gli otto stendardi avuti dal doge Sebastiano Zani da papa Alessandro III in memoria dei servigi dalla repubblica prestati a quel pontefice nella guerra contro l’imperatore Federico Barbarossa; seguitavano le sei trombe d’argento sostenute sulle spalle da altrettanti fanciulli; indi succedevano i cinquanta comandatori vestiti sempre in abito lungo azzurro, e colla berretta rossa avente nel mezzo uno zecchino. Quel la berretta fu sostituita nel 1525 ad una bacchetta che innanzi tenevano in mano.
Dietro di essi venivano prima i pifferi che suonavano armonicamente e poi gli scudieri del doge vestiti di velluto nero, non che il chierico del doge vestito di pavonazzo con il cereo sopra un candeliere d’argento. Succedevano sei canonici, tre residenti, e tre parrochi in piviale, a di mostrare come le cose temporali vogliono essere accompagnate alle religiose. Appresso camminavano i castaldi del doge, i segretari del pregadi, il cappellano del doge vestito di cremesino, e due cancellieri del doge, detti inferiori o ducali, vestiti di color pavonazzo con stola del medesimo colore. Tenevano dietro il cancellier grande in veste cremesina a manica ducale, il ballottino del doge e due scudieri, uno con una sedia a man destra, e l’ altro con un cuscino di panno d’oro alla sinistra.
Poco appresso veniva il doge sotto l’ombrella portata da altro scudiero e tolto in mezzo dagli ambasciatori, e segui tato da un patrizio prossimo a partire, per essere stato nominato ad alcun reggimento di mare o di terra, e recante in mano la spada sguainata del doge. Alla sinistra di quest’ultimo camminava altro patrizio, indi seguivano uno dei giudici del proprio a man destra del più vecchio dei sei consiglieri ed immediatamente gli altri consiglieri a destra dei procuratori.
Seguitavano i tre capi della Quarantia, i tre Avvogadori, i tre capi del consiglio dei Dieci, i due censori, dopo i quali movevano i sessanta Patrizi formanti il corpo ordinario del Senato, i sessanta dell’aggiunta, perché per sei mesi toccava o all’uno od all’altro di quei due corpi l’accompagnare il principe. Tutti erano vestiti di seta di color cremesino e con le maniche alla ducale.
Tale era il corteggio pomposo del principe nelle dieci sue più solenni comparse. Nelle altre ventidue non da altri era seguito che dalla sola signoria. Noi indicheremo e le une e le altre per ordine dei mesi di tutto l’anno.
Nel mese di gennaio, al principio dell’anno, senza trionfi portavasi il doge alla basilica di San Marco, dove era esposta la pala d’oro. Ivi alla messa, cantata da un canonico, rispondeva, come sempre, il doge stesso alla confessione ed all’introito. Tre giorni restava esposta la detta pala e si chiudeva il terzo di con una processione a cui interveniva il doge con il gran collegio. Al 6 (Epifania), scendeva il doge senza trionfi novellamente alla basilica Marciana per assistere alla pubblicazione delle feste mobili di tutto l’anno che dal diacono venivano gridate subito dopo il vangelo. Al 14 nello stesso modo vi si riconduceva per venerare le reliquie di San Pietro Orseolo doge di Venezia donate alla repubblica da Lodovico X, re di Francia. L’ultimo giorno infine di gennaio era consacrato a commemorare con una messa solenne la traslazione del corpo di San Marco da Alessandria in Venezia.
Nel mese di febbraio, al primo, vigilia della Purificazione di Maria Vergine, si portava il doge trionfalmente a Santa Maria Formosa in grata ricordanza della vittoria dai nostri riportata sopra i Triestini rattori delle donzelle in Olivolo. Indi ai 2, giorno della Purificazione, scendeva senza trionfi, nella Basilica Marciana, dove, celebrata da un canonico messa solenne, e fatta la ordinaria benedizione delle candele, una di esse veniva posta sul candeliere del doge, mentre donate le altre ai preti ed al corpo della Signoria assistenti alla funzione, si faceva la processione per la chiesa.
Nel mese di marzo, al 25 del mese, giorno dell’Annunziazione di Nostra Donna, il principe, senza trionfi, assisteva alla messa nella chiesa di San Marco, e nel dopo pranzo veniva recitato alla presenza di lui un discorso dal più celebre oratore quaresimale di quell’anno. In quel giorno rammemoravano i Veneziani la fondazione della città loro, ed un procuratore di San Marco vestito di porpora, si conduceva alla chiesa della Salute ad aprire l’immagine di Maria, che da Candia era stata trasferita nel 1669 in Venezia.
Nel mese di aprile, al 5 del mese si solennizzava in Venezia la festa di Santa Maria della Carità, la quale ebbe cominciamento nel 1177, nell’occasione in cui papa Alessandro III si ricoverava in quel monastero fuggendo la persecuzione dell’ imperatore Federico Barbarossa. Ottenuta la pace consacrò il pontefice quella chiesa accordandole le stesse indulgenze di quella di San Marco, ed un decreto del governo stabili che il 5 di questo mese fosse il giorno destinato per acquistarle. Per cui il doge, senza trionfi portavasi alla Carità in tal giorno, tanto per lucrare delle indulgenze quanto per rammentare la felicissima sua mediazione tra due sovrani si distinti. Ai 16 di aprile, a rammemorare la congiura di Marin Falier felicemente svanita nel 1554, aveva luogo nella basilica una processione a cui interveniva il doge con le principali confraternite, e nella quale i comandadori ducali in segno di luttuosa rimembranza recavano una torcia rovesciata.
Nella vigilia poi di San Marco (24 aprile) il doge scendeva trionfalmente ai vesperi nella basilica ed il giorno appresso, nel medesimo modo, assisteva, con l’ intervento degli ambasciatori esteri, ad una messa solennemente celebrata dal primicerio, a cui succedevano le processioni della scuole grandi. Compiuta la funzione, il doge passava al suo palazzo dove intratteneva ad un banchetto solenne il legato pontificio, gli ambasciatori ec. In quel giorno sacro al patrono della città, erano anche permesse le maschere.
Nel mese di maggio, il primo del mese andava il doge a visitare il monastero delle Vergini e poi passava alla visita della chiesa di San Daniele. Il giorno 9 di quel mese assisteva con il collegio alle esequie in San Marco del cardinal Zeno. Perciò avendo quel cardinale lasciato grandissima somma di denari e di argento lavorato alla repubblica istituì esecutori della sua volontà testamentarie i procuratori de citra e loro ingiunse l’obbligo dl fargli celebrare un annuo esequie. A tal fine, nel detto giorno, scendeva il doge accompagnato dagli ambasciatori, i consiglieri, dai procuratori, dai capi dei Quaranta, dagli avogadori, dai capi del consiglio dei Dieci, dai censori, dai savi del consiglio, dai savi di terra ferma, dai savi agli ordini e dal senato. All’entrar che tutti facevano nella basilica per la piccola porta di San Clemente, trovavano i castaldi dei menzionati procuratori de citra, i quali secondo che ognuno passava distribuivano piccole borse con un ducato ed una candela. Si celebrava di poi la messa solenne, indi, recitata da un giovanotto di cancelleria sul pergamo alla sinistra del coro un’orazione latina in lode del predetto cardinale, veniva poscia cantato l’esequio al catafalco in mezzo alla chiesa; dopo di che il doge ed il suo corteggio tornavano al palazzo.
Nel mese Giugno al 13 del mese si portavasi il doge a visitare nella chiesa della Salute la reliquia di Sant’Antonio di Padova trasferita nel 1654, sciogliendo così il voto fatto dal senato per vedere la repubblica liberata dalla gravosissima guerra di Candia. Il municipio di Venezia, per lo fine medesimo al paro che nelle altre feste votive di Santa Maria della Salute, del Redentore e di San Rocco si reca tuttavia in tal giorno in quella chiesa.
Per la rimembranza della congiura ordita nel 1510 da Marino Bocconio, così detta di Baiamonte Tiepolo, soleva il doge visitare trionfalmente, ai 15 di giugno, la chiesa dei Santi Vito e Modesto indi, tornato al palazzo dava uno dei solenni banchetti ed erano permesse in quel giorno le maschere. Al 25 di quel mese, per ricordare la celebre invenzione delle ossa di San Marco fatta nel 1094 dal doge Vitale Faliero, insieme all’imperatore Enrico V, che tocco da divozione si era appositamente recato in Venezia, il doge ascoltava anticamente la messa nella basilica Marciana, indi le scuole grandi processionalmente si avanzavano nella chiesa medesima. Ma tale funzione, come ivi si disse, non vide il termine della repubblica, perché si ridusse ad una messa solenne a cui assisteva il doge, il quale formava poi corteo ad una processione che si faceva intorno la basilica con i Vangeli scritti da San Marco, aspergendosi ad un tempo la chiesa con l’acqua di rosa.
La vittoria ottenuta contro il Turco ai Dardanelli nel 1656, sotto il comando del capitan generale Lorenzo Marcello veniva commemorata nel giorno 26 giugno. A perpetuare la memoria di cosi insigne vittoria, decretò il Senato che nel menzionato giorno dovesse il doge, la signoria e gli ambasciatori montare sulle barche dorate e recarsi ogni anno alla chiesa dei Santi Giovanni e Paolo ove pure concorrer doveva il clero con le principali confraternite. Negli ultimi tempi la cerimonia consisteva in una messa ed in una processione solenne.
La festa stabile che si solennizzava nel mese di luglio, e con essa l’andata pubblica del doge, cadeva nel di 17 in memoria di altra vittoria dei nostri sopra quelli di Padova; vittoria che pose fine alla celebre lega di Cambrai. A rammemorare quel fatto, cotanto decisivo per la sorte della repubblica, il doge andava ogni anno trionfalmente con il suo augusto corteggio alla chiesa di Santa Marina per assistere ad una messa solenne e baciarvi la pace. Il dopo pranzo erano permesse le maschere.
Nel mese di agosto nel giorno 15, in cui cade l’Assunzione di Maria Vergine, il doge calava nella basilica di San Marco ed ascoltava messa solenne, che veniva celebrata dal primicerio. Nel giorno seguente poi, sacro a San Rocco, si portava il doge a visitare quella chiesa per la liberazione della peste avvenuta nel 1576 per la intercessione di quel santo.
Nel mese di settembre, nel giorno 8, in cui la chiesa celebra la Natività di Maria Vergine, sua serenità portavasi alla messa solenne a San Marco, e poi alla visita della chiesa patriarcale di Castello onde venerare il corpo di San Lorenzo Giustiniani.
Nel mese di ottobre, e precisamente nel giorno 7, a ridurre alla memoria la celebre vittoria delle Curzolari, volgarmente detta la vittoria di Lepanto, il doge si portava a visitare in gran pompa la chiesa dedicata a Santa Giustina. Ai 15 poi di quel mese si conduceva ad udire la messa nella chiesa di Santa Teresa come quella sulla quale avevano i dogi una giurisdizione.
Nel mese di novembre, al primo del mese, in cui cade la commemorazione di Tutti i santi, assisteva il doge ad una messa nella marciana basilica; ma nel di 21 di quel mese si portava a sciogliere il voto stabilito nel 1651, di erigere cioè il tempio della Salute per la liberazione della peste in quell’anno ottenuta. Dopo quella visita andava a San Marco e vi si fermava finché erano passate le processioni.
Nel mese di dicembre, il giorno 6, consacrato dalla chiesa a San Nicolò e che pei Veneziani ricordava il gran conquisto di Costantinopoli fatto da Enrico Dandolo, il successore di quel doge, Pietro Ziani, tanto per onorare la memoria di si chiaro cittadino, quanto per soddisfare del proprio al voto fatto da quell’illustre, di erigere cioè a San Nicolò protettore dei marinari una cappella nel palazzo ducale, faceva eseguire la cappella medesima, alla quale si recava ogni anno il doge con tutta la signoria nel detto giorno 6 dicembre ad udirvi la messa Solenne.
Nella sera del 24 dicembre, vigilia del Santo Natale, scendeva il doge nella basilica vestito di seta con il senato vestito di scarlato con le stole di velluto ed assisteva alla messa non meno che alla compieta ed al mattutino. La mattina poi del 25 faceva ritorno al sacro tempio, dove assisteva al divino sacrificio, mentre al dopo pranzo, sceso egli prima alla basilica udiva la predica, e poi in trionfo si portava sui peatoni dorati al vespero in San Giorgio Maggiore affine di venerare il corpo di San Stefano. Lo stesso faceva nella mattina appresso in cui ascoltava in San Giorgio la messa, detta dall’abate di quei monaci e cantata dai musici di San Marco. Ritornato il doge al proprio palazzo tratteneva a desinar seco, oltre la signoria ed i soliti magistrati, anche i quarantauno che lo avevano creato doge.
Queste erano le andate pubbliche delle feste stabili; altre ce n’ erano per la ricorrenza di certe feste mobili, cosi dette perché non avevano un giorno determinato.
Nella domenica delle Palme adunque sua serenità scendeva ad udir la messa con il senato nella chiesa di San Marco e nel dopo pranzo, udita la predica ed il vespero, portavasi a visitare le chiese della Pietà e del Santo Sepolcro. Come che il doge non scendesse più sino al mercoledì santo, tuttavolta durante la settimana santa vestivano di pavonazzo tutti i consiglieri, i capi del consiglio dei dieci, gli avvogadori, i capi delle quarantie ed i censori, mentre i savi vestivano di nero ed il doge di seta cremesina. Il venerdì santo per altro tutti per divozione vestivano di nero, fuorché il doge il quale portava il manto di scarlatto, e dove egli non avesse potuto uscire per impedimento, vestiva a quel la foggia il vice-doge. Nel dopo pranzo del mercoledì santo trasferitosi prima il doge con la signoria in sui peatoni dorati a San Giovanni di Rialto all’acquisto delle indulgenze accordate in tal giorno a quella chiesa, andava poi alla chiesa di San Marco ad udire gli uffici divini. Il giovedì santo, assisteva nella mattina agli uffici divini nella chiesa di San Marco, terminati i quali andava con il collegio all’acquisto del cosi detto perdono in San Giacomo di Rialto, riducendosi nel dopo pranzo di nuovo nella Basilica ai divini uffici. Il doge il venerdì santo, andava a San Marco, udiva i divini uffici e la messa, adorava la Santissima Croce, e nel dopo pranzo, udiva la predica, e seguiva la processione che si faceva tutto intorno la piazza. Nel sabato, scendeva pure il doge nella chiesa di San Marco dove, uditi gli uffici e la Messa, andava con il clero al battistero. Fatta la benedizione delle acque e del fuoco si preparava per il doge apposita sedia al battistero ornata con spalliere.
Il giorno di Pasqua sua Serenità scendeva ancora a San Marco accompagnato al clero ducale che andava ad incontrar lo sino alla scala aurea del palazzo. Il vicario, avente tre candele in mano, ne offriva alla metà della scala medesima una al doge ed una al procuratore addetto alla chiesa di San Marco, il quale precedendo tutti gli altri, se ne stava in quella processione presso il principe. Riservava la terza per lo primicerio che frattanto si andava apparando pontificalmente. Giunta la processione alla porta maggiore della basilica, il vicario vi picchiava ed i cantori cantando di dentro: Quem quaeritis in sepulcro, Christicolae? gli altri di fuori rispondevano: Jesum Nazaraenum crucifixum, o Caolicolae. Ripigliavano quelli di dentro: Non est hic; surrexit, sicut praedixerat. – Ite, nunciate quia surrexit ec. – Poi fermatisi alquanto, seguivano: Venite et videte locum ubi positus erat Dominus. Alleluja; nel che dire la porta si apriva, ed il doge con la signoria si portava a visitare il sepolcro. Verificata ivi dal vicario la risurrezione abbracciava il doge e tutto il suo corteggio; indi la comitiva si portava in coro ad udire la messa solenne. Nel dopo pranzo dello stesso giorno discendeva il doge ad udire la predica nella Basilica, e di poi passava a visitare la chiesa di San Zaccaria.
L’ottava di Pasqua, o domenica degli Apostoli, si portava il doge trionfalmente a San Giminiano, in memoria della riedificazione di quella chiesa.
La vigilia dell’Ascensione o della Sensa sua serenità andava coi trionfi ad udire vespero in San Marco, e nel giorno appresso, Ascensione, andava con il Bucintoro al Lido per sposare il mare. Il primo movente di tale solennità era quello di ricordare la vittoria riportata dal doge Pietro Orseolo II sopra i Narentani. Guesto popolo barbaro, uscito dalla Scizia si trasferì sulle sponde del Mar Nero, dove diviso in due porzioni, una si fermò nel VI secolo nell’Illirio; indi acquistando sempre nuovo terreno s’inoltro fin sulle spiagge dell’Adriatico e vi eresse Narenta, città che comunicò il suo nome a tutta la nazione. Pigliando sempre maggior animo penetrarono i Narentani nell’Istria, costruirono vascelli e si diedero ad esercitare la pirateria. Non tardarono i Veneziani a provarne i tristi effetti, per cui cominciarono quelle zuffe così frequenti e feroci e quella guerra si lunga ed ostinata che durò più secoli. Di ciò stanchi, nel 998, i popoli dell’Istria e della Dalmazia si diedero spontanei ai Veneziani purché li salvassero dal comune nemico. A tale oggetto il doge Pietro Orseolo Il, allestita una forte squadra, percorreva prima l’Istria e la Dalmazia ricevendo le più vive acclamazioni e la dedizione di tutti quei paesi alla repubblica. Sole le due isole di Curzola e di Lesina si mostrarono restie alla sommissione. Fu cura quindi del doge ridurre con la forza delle armi quei luoghi che tornavano di vantaggioso ricovero ai Narentani. Curzola, più facilmente che Lesina, si arrendeva; ma sconfitta pur essa, sterminati furono i Narentani in tutti i loro covi. Senza porre presidi, senza alterare le pratiche ed i costumi di quei paesi, Orseolo rivedeva trionfante quei luoghi, vi piantava l’albero della conquista, e conchiudeva un trattato, per il quale ogni città avesse a pagare un annuo tributo e fornire certo numero di marinari, di soldati e di vascelli, ricevendo gli Istriani e i Dalmati in ricambio in Venezia favore e privilegi. Tolto cosi dalla radice tanto male per la repubblica, resa essa affatto signora del Golfo, il doge da quell’epoca s’intitolò doge di Venezia e della Dalmazia, ed si ordinò l’annua visita al mare affinché fosse perpetuata memoria del fatto che aveva dato ai Veneziani il dominio del golfo medesimo.
Liberato poi nel 1177 dal doge Sebastiano Ziani dalle persecuzioni di Federico Barbarossa il Pontefice Alessandro III nell’accompagnare che fece quel pontefice sino in Ancona, in guiderdone da lui quasi di tanti utili servigi ricevette colà oltre a molte indulgenze accordate alla chiesa di San Marco, un anello dicendo: con il quale e lui ed i successori avessero a sposare ogni anno il mare.
Fu da allora che la cerimonia del giorno dell’Ascensione o della Sensa assunse un aspetto più solenne, aggiungendosi al costume antico di visitare il mare quest’altro della investitura sotto la immagine di uno sposalizio. Per la qual cosa, udita ogni anno dal doge la messa nella cappella del collegio, se ne scendeva e passando per le botteghe dei marciai e dei vetrai erette per la fiera dell’Ascensione che nel giorno innanzi aveva incominciamento si avviava alla piazzetta per montare in sul bucintoro. A mezza via incontrato veniva dal patriarca, che accompagnato dal capitolo dei suoi canonici, intanto che il doge entrava nel bucintoro, montava su un peatone che si attaccava alla poppa del bucintoro e che veniva rimorchiato. Non appena si movevano quelle banche che il patriarca mandava anticamente al bucintoro due o tre bacili ripieni di rose e di altri fiori da essere dispensati al doge ed a tutta la signoria. Giungeva finalmente il bucintoro ai castelli di Lido, comechè altre volte affatto uscisse fuori in mare. Ivi girando la puppa del bucintoro verso il mare, e pigliato un anello d’oro, che benedetto era in prima dal patriarca nel suo peatone, lo gettava in mare, dove poco innanzi il patriarca aveva fatto gettare un mastello d’acqua benedetta, e diceva Desponsamus te, mare, in signum veri, perpetuique dominii. Indi passando alla chiesa di San Nicolò del Lido, alla porta era incontrato dal patriarca, che là innanzi pervenuto, lo aspergeva con l’acqua santa, lo incensava, e detta un’orazione, entrava col doge in chiesa. Ivi udita la messa solennemente cantata, risaliva con tutta la signoria il bucintoro e se ne ritornava al palazzo ducale, trattenendo a banchetto quanti l’avevano accompagnato in quell’augusta cerimonia.
La domenica delle Pentecoste era consacrata soltanto alla devozione e quindi il doge, sceso nella basilica, ascoltava soltanto la messa solenne.
Appena Urbano IV ordinava nel 1295 la funzione del Corpus Domini emanava la repubblica un decreto che per tutto il Veneto dominio fosse religiosamente festeggiato un tal giorno. Cosiffatta festa in sul principio non consisteva che nella esposizione dell’ostia consacrata; in seguito vi si aggiunse la processione alla quale faceva corteo il doge con tutto il corpo della repubblica. Ciascun gentiluomo vi compariva avendo alla destra uno dei tanti pellegrini che a quei giorni si trasferivano onde passare in Terra Santa; ma, cessato il concorso dei pellegrini, nel 1404 fu riformata la processione e si ordinò che ogni nobile cedesse la destra invece ad un povero.
L’ultima delle andate trionfali del doge era nella terza domenica del mese di luglio, in cui si portava alla chiesa del Redentore a sciogliere l’annuo voto per la liberazione dalla peste nel 1577. Ritornava di poi a San Marco, ed ivi si tratteneva sin che fossero passate le processioni.
Usciva però il principe, oltre che nelle predette comparse, in diverse altre occasioni, come nei funerali degli ambasciatori, dei principi esteri, del Patriarca di Venezia, del cancelliere grande e di qualche segnalato condottiero di armate; non meno che per come nato lo stendardo ad un generale di mare che nuovamente fosse stato eletto. In ciascheduna di tali circostanze il nunzio pontificio e l’ambasciatore di Francia accompagnavano il doge sino alla scala dei giganti dove s’accommiatavano da sua serenità; ma in luogo di ritirarsi si fermavano alla destra e vi restavano, finché fossero passati tutti i senatori. Si furono cagione di quell’uso le sollecitazioni fatte una volta dal nunzio Pontificio ad ogni senatore alfine di sortire in un importante affare. La repubblica però, traendone partito, convertì la circostanza in un costume pel quale i senatori al pari del doge, erano onorati dai ministri delle due principali potenze cristiane.
Il doge nelle private sue stanze portava e veste rossa lunga alla romana, foderata di pelli nell’inverno, e pileo purpureo Però così vestito accoglieva visite, ed augurii da cospicui soggetti; sedeva talvolta ai pubblici banchetti e portavasi in barca a festeggiare qualche solennità, specialmente di sponsalizie, tra suoi parenti. Nel caso di lutto, per la morte di alcun stretto congiunto, portava mantello e veste di scarlatto uguali a quello che usava nel venerdì santo, comparendo in tal foggia una sola volta, tanto nel collegio che nel Pregadi. (1)
(1) ERMOLAO PAOLETTI. Il fiore di Venezia. I quadri, i monumenti, le vedute ed i costumi veneziani. Vol IV (Venezia, Tommaso Fontana Tipografico Edit., 1840).
FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.