La Guerra della Lega di Cambrai (1508-1516). II parte

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Ritratto di papa Giulio II nato Giuliano della Rovere (Albisola, 5 dicembre 1443 – Roma, 21 febbraio 1513)

La Guerra della Lega di Cambrai (1508-1516). II parte

Macchinazioni di Francia, Germania e Papa contro Venezia

Fu infatti appena conclusa la tregua tra Francia e Spagna, che già re Lodovico rannodava nuove pratiche con Massimiliano per ridur a termine il trattato condotto molto innanzi fino dall’ottobre 1501, poi per insorte differenze rimasto sospeso. Di sifatti maneggi ebbe tosto avviso la Repubblica da D. Lorenzo Suarez ambasciatore di Spagna in Venezia, il quale aggiungeva che molto vi si affaccendava anche il Papa, e faceva in nome del suo sovrano le più larghe offerte, al caso che quella lega si effettuasse. Rispondeva il Senato ringraziando, che veramente penava a creder tanta macchinazione, e sperava poter ancora d’accordo con il suo re sventare l’opera dei maligni. Ma non lasciava perciò di scrivere prontamente al suo oratore in Germania comunicandogli quanto aveva saputo; anche da Francia aver notizie che vi si aspettava il cancelliere del Tirolo, il quale come si credeva, dovrebbe essere il Serentainer, portatore di certe ratificazioni della Cesarea Maestà di cose trattate da D. Filiberto di Savoia; vigilasse dunque attentamente. All’oratore in Ungheria altresì raccomandava si adoprasse a mantenere in buona amicizia quel re, che il Papa pure non lasciava d’istigare.

Somiglianti notizie venivano dall’oratore Francesco Cappello il quale scriveva il 12 giugno da Inspruck che correvano grandi pratiche tra Francia, Germania, Spagna e l’arciduca di Borgogna per le quali si voleva ottenere che la Repubblica restituisse al Papa tutte le terre già del Valentino, pagando egli le spese sostenute e impegnandosi di tenerle sempre per la sede apostolica, e non investirne giammai alcuno; e che quando la Repubblica non acconsentisse, si parlava di ridurvela con le armi.

Massimiliano intanto che voleva darsi l’aria di perseverare nelle sue amichevoli relazioni con la Repubblica, dava buone parole al suo oratore, le chiedeva anzi consiglio se aderire all’invito del re d’Ungheria di stringere una lega contro il Turco, ed inviare a Venezia D. Ludovico Bruno vescovo aguense e D. Bartolomeo Firmiani per interporsi in una conciliazione con il Papa. Dicevano questi: alle ragioni dei Veneziani opporre il pontefice, che papa Alessandro non poteva de iure concedere i beni della Chiesa al suo figliolo; che il Valentino non aveva fatta alcuna ingiuria ai Veneziani perché questi avessero con ragione tolte le armi contro di lui; che quando la Signoria si mise in possesso di Faenza e Rimini il pontefice poteva far conto di averle già in mano poiché teneva il Valentino prigioniero, il quale gli aveva promesso di fargli restituire tutte le sue terre; che Pandolfo Malatesta di Rimini non aveva la facoltà di cedere ad altri quello Stato, e perciò gli oratori persuader volevano la Repubblica a farne la restituzione, in gratificazione almeno di Sua Maestà; che di ciò verrebbe essa sollecitata anche da altri principi cristiani, cui il Papa aveva fatto ricorso; bene sarebbe torre codesto fomento di guerre e con piccolo sacrificio sfuggire a mali maggiori.

Rispondeva il Senato lodando i cortesi e modesti modi degli oratori cesarei, però osservava l’alienazione al Valentino non essere stata fatta soltanto da papa Alessandro ma dalla sede apostolica e da tutto il collegio dei cardinali con tutte le solennità solite a praticarsi in simili casi; constare palesemente che esso Valentino aveva provocato la Repubblica attentando alle terre sue di Romagna, né risparmiando contro di lei le contumelie e le ingiurie tra altre, grave insulto aveva fatto a lei stessa nell’iniquissimo ratto della moglie del Caracciolo suo capitano, da lui commesso in su quel di Cervia; aveva egli arrestato e spogliato di ben ventimila ducati i mercanti veneziani a Sinigaglia, fatto squartare un cavaliere veneto che passava per Rimini e appiccarne i quarti fuor della porta che va a Ravenna a manifesto scherno della Signoria; a tutti esser noto come il Valentino, sebben prigioniero, si era lungamente rifiutato di dare i segni delle fortezze e quando pur li diede i castellani avevano rifiutato di obbedire; che il Malatesta infine avesse piena facoltà di permutare il suo Stato esser dimostrato pienamente per altri casi consimili. Forti dunque del loro diritto i Veneziani, non avrebbero a questo rinunziato, dolenti di non poter in ciò compiacere a sua Maestà, verso la quale la Repubblica professava del resto tanta devozione che quanto per lei non facesse, non sarebbe per certo a fare per alcun altro.

Trattato di Blois contro i Veneziani

Il Papa, sempre più irritato di tanta ostinazione nei Veneziani, non cessava di volgersi a tutti i principi cristiani ma specialmente a Francia ed all’imperatore, e tre trattati alfine si segnavano a Blois il 22 settembre 1504; nel primo dei quali Massimiliano concedeva a Lodovico l’investitura del ducato di Milano per lui e discendenti maschi, succedendo in mancanza di questi madama Claudia di lui figliola, in cambio di che il re Lodovico si impegnava di pagargli centoventimila fiorini, metà all’atto della ratificazione del trattato e il resto fra sei mesi, offrendogli inoltre ogni anno nel giorno di Natale un paio di speroni d’oro in segno di omaggio; col secondo, Claudia di Francia veniva promessa sposa a Carlo d’Austria, o al fratello Ferdinando, se Carlo premorisse, assegnandole in dote il ducato di Milano, e cedendole inoltre la Borgogna, la Bretagna, Genova, Asti, la contea di Blois, il che era uno smembrare i domini della Francia, nella quale, quando si seppe, si levò una indignazione generale. Con il terzo infine la Francia ed il re dei Romani si collegavano contro i Veneziani, con obbligo di assalire di conserva quella Repubblica e dividere i suoi Stati di terraferma, trattato che venne poi confermato il 4 aprile 1505 e per il quale Massimiliano prometteva non attentar nulla contro il ducato di Milano e Lodovico parimenti non s’immischiare nelle cose dell’impero. Tra gli aderenti, nominati da ciascuna delle parti, il re di Francia, anziché nominare i Veneziani suoi antichi alleati, fece inserire il papa. Né tardarono i Veneziani ad avere qualche benché vaga notizia del maneggio, e il Cappello scriveva il 27 novembre da Augusta che si cominciava a sparlare apertamente della repubblica e che questa dovesse tenersi ben sulle guardie. Fatto cenno dei sospetti che correvano con il Saurez ambasciatore di Spagna, questi assicurò dell’amicizia del suo re, il quale se fosse invitato ad aderire al trattato vi farebbe inserire anche i Veneziani, anzi se il re cristianissimo intraprendesse cosa alcuna contro di loro, il re cattolico, ad onta della tregua testé conclusa, non vi si terrebbe legato, e lasciava perfino intravedere le possibilità di un lega.

Quanta sincerità fosse in codeste dimostrazioni amichevoli e nello zelo che metteva il Suarez a tenere avvisata la Repubblica di quanto andava scoprendo circa ai patti del trattato di Blois, non oserei affermare, certo che l’indole ben conosciuta di Ferdinando e la successione dei fatti, non permettono di apporvi grande fede. Né minor dissimulazione si osservava dalla Francia, il cui oratore Giovanni Lascari si presentava il 28 novembre in Senato a dare comunicazione della conclusa pace tra la Cesarea Maestà e il re cristianissimo. Rispondeva il senato goderne come di beneficio comune alla cristianità, non dubitare della continuazione del benevolo animo di Sua Maestà verso la Repubblica; circa poi ai suggerimenti che a questa si facevano di accomodarsi con il Papa, essere giuste le proprie ragioni e se il Cristianesimo volesse prestare i suoi buoni uffici alla pace e concordia generale, gli adoperasse a calmare e rappacificare il pontefice: sorprendere però grandemente come l’onorevole ambasciatore non facesse parola dell’adesione di papa Giulio al trattato di Blois, quando pur si sapeva che egli vi entrava per certo e che se ne riprometteva efficaci soccorsi, lo che non si poteva veramente credere perché sarebbe contro i patti dell’alleanze; perciò desiderava di avere maggiore contezza della cosa e sapere se la Repubblica fosse stata inclusa nel trattato come voleva l’alleanza sua con il re Cristianissimo. 

Questi cercano di ripararvi con la destrezza diplomatica specialmente calmando il Papa 

Non cessava intanto il senato di spiegare la sua operosità diplomatica, e tutto dissimulando, mentre da una parte scriveva al suo oratore in Francia, mettesse ogni studio a conservare quel re benevolo, cercava dall’altra amicarsi Massimiliano e Spagna, ove morta la regina Isabella di Castiglia, scriveva una lettera di condoglianza a re Ferdinando e alla principessa Giovanna sua figlia.

La pratica faceva bene sperare, e il senato per agevolarla si volgeva anche al Papa e lo placava con la cessione delle terre di Romagna già tolte al Valentino, ritenendo soltanto Rimini e Faenza, coi medesimi patti coi quali già le aveva possedute Pandolfo Malatesta. Venivano quindi dati a quei provveditori gli ordini opportuni della consegna, non lasciando di raccomandare loro di far ogni sorta di dimostrazione d’onore al nunzio incaricato di riceverle “acciò (il Papa) conosca per questi segni et boni trattamenti la ottima disposizione dell’animo nostro verso Sua Santità. Nella consegnatione (che) farete a loco per loco cum dolci e umanissime parole direte a quelli fidelissimi popoli che essendo ossequentissimi figlioli del summo Pontefice, padre del stato nostro, abbiano procurato che sua Beatitudine li accetti come ha fatto in boni et devotissimi sudditi, e ha in segno di questo clementissime datoli la benedictione sua, confortandoli a che i habino a star de buon animo et che essendo in protectione de S.S. i reputino essere nella propria nostra affirmandoli che mai non siano per mancarli d’intercessione a favore appresso la Santità predicta“.

E così parevano finalmente accomodate le cose con il Papa, il quale chiamò di nuovo i Veneziani buoni e carissimi figli della sede apostolica e della beatitudine sua, e vi era motivo a sperare che tutto potesse volgere a quiete. 

Turbazioni d’Italia 

Ma altrimenti divisavano le sorti della misera Italia. I Fiorentini continuavano ancora nella loro guerra di Pisa, in cui soccorso il Consalvo aveva mandato alcune truppe spagnole, si scopriva in Ferrara una congiura contro il nuovo duca Alfonso succeduto l’anno innanzi al padre Ercole, tramata dai suoi fratelli Ferdinando e Giulio che furono condannati a morte, ma poi per grazia di Alfonso a carcere perpetua; Genova agitata dalle fazioni non frenata neppure dal dominio straniero del re di Francia e dalla presenza del Ravestein suo governatore, vedeva i suoi nobili cacciati, il potere nelle mani della plebe, e venir di nuovo re Lodovico con considerevoli forze a ripristinarvi l’ordine; il Papa finalmente, deciso di abbattere tutti i tirannucci di Romagna e aver intero il possedimento di questa, portava egli stesso la guerra contro Paolo Baglioni signore di Perugia e Giovanni Bentivoglio di Bologna, nel tempo stesso che Ferdinando di Spagna, divenuto geloso del suo capitano Consalvo, si recava in persona a Napoli e sotto apparenza di onore lo riconduceva seco in Spagna. Né Massimiliano si teneva quieto, e, raccolta una dieta in Costanza, domandava all’impero denaro e truppe per scendere in Italia, farvi valere i suoi diritti e punire Lodovico che mancava ai patti. 

Sospetti destati dalla venuta di Massimiliano 

Tutti codesti movimenti erano seguiti naturalmente con occhio vigile dalla repubblica, la quale si sforzava di barcheggiare conservandosi in amicizia con Francia, schermendosi dal trattato a cui l’invitava Massimiliano, raccomandando al Papa badasse bene coi suoi movimenti guerreschi di non chiamare armi straniere in Italia.

Ma era impossibile impedire che tanto avviluppamento d’interessi, tante veementi ambizioni non prorompessero o tosto o tardi qualche violento scoppio. Massimiliano specialmente sempre più geloso del potere dei Francesi in Italia e desideroso di cacciarli dal ducato di Milano, mandò suoi oratori a Venezia annunziando la sua prossima venuta. La Signoria gli rispondeva che l’onorerebbe come capo e propugnatore della fede cristiana, lo invitava anzi a visitare nel suo passaggio la città, ma gli raccomandava in pari tempo che scendendo in Italia per la sua incoronazione, volesse venire pacificamente e senza apparato d’armi, come già era venuto suo padre. In pari tempo scriveva al re di Francia che designando il re dei Romani venire con potente esercito in Italia, sarebbe prudente cosa mandasse anch’egli sue genti a Lione con voce di venirvi in persona, mentre la Repubblica altresì si armerebbe e farebbe specialmente provvedimenti nel Friuli.

Eccitava allora Lodovico ad una lega, ed esse rispondeva essere inutile, poiché ancora esisteva la precedente e il rinnovarla darebbe motivo sempre più di sospetti, e a sollecitare la venuta di Massimiliano; la eccitava ugualmente Massimiliano e si scusava con il non dare motivo ad un’alzata d’armi per parte di Francia. Ma le cose si intorbidivano di nuovo anche con il Papa, per le nomine ai vescovati allora vacanti di Cremona e di Padova circa ai quali voleva Sua Santità derogare al costume antichissimo del senato di scegliere tra i candidati che poi presentava semplicemente alla conferma del pontefice; per le accuse che dava alla Repubblica di una lega con la Francia, con la quale egli allora viveva in non poca freddezza e quasi nemicizia, di aver ospitato Ermes Bentivoglio dopoché la Santa Sede si era insignorita della sua città di Bologna, di aver favorito nella resistenza il signor di Pesaro, invano cercando la repubblica di giustificarsi e di placarlo, e ricordandogli come le aveva già promesso di non offenderne gli Stati. 

Egli richiede d’alleanza la Repubblica 

Crescevano dunque ognor più l’operosità diplomatica; l’invio di ambasciatori e di lettere, le istruzioni e i provvedimenti; ma già ogni sforzo per tener lontane le armi straniere e impedire un conflitto si vedeva tornar vano e solo restava a sapersi se Venezia avesse potuto mantenere la sua neutralità. La sollecitava sempre più Massimiliano ad unirsi con lui, le proponeva i capitoli della sua lega, dicendo a Vincenzo Querini ambasciatore che il re di Francia veniva in Italia per soggiogar Genova, che aspirava al dominio di tutta Italia, che assalirebbe anche Venezia, che bisognava porvi riparo; pensasse poi la Repubblica che se la sua alleanza venisse rifiutata, egli si sarebbe accordato con Francia ai suoi danni. Di Francia venivano notizie di grandi armamenti e si diceva contro la Repubblica.

Sforzi di questa per impedire la venuta di stranieri in Italia  

Questa faceva il 27 marzo 1507 un ultimo tentativo per salvare l’Italia dagli orrori della guerra mandando Francesco Corner ambasciatore in Spagna per trattare di una lega tra essa repubblica, il re cattolico e il re cristianissimo con intenzione di farvi entrare anche Massimiliano e volgere poi le armi contro gli infedeli a beneficio ed aumento della cristiana religione.

Ed invero il pensiero era ottimo, allontanando così dall’Italia tutte quelle armi che volevano farne lor preda. Se non che la politica sua conciliatrice la aveva invece resa sospetta tanto a Francia quanto a Germania, e Paolo di Linchtenstein diceva all’ambasciatore Querini, “che bisognava bene che ella si decidesse alla lega con l’imperatore, od almeno alla neutralità concedendogli però il passo, o ad assumere la inimicizia eterna con lui; badasse bene, soggiungeva, a ciò che facesse fidandosi di Francia, né potersi dare a credere che la Repubblica volesse esporsi ad una nemicizia perpetua con l’imperio e perdere una così bella occasione di assicurare di assicurare lo Stato suo, e veder l’Italia libera da tiranni facendosi amica e collegate dell’impero e di tutta Germania, e ristretta con il re dei Romani che da Bergamo fino in Istria confina con lei“. Ed oltre a ciò ella deve anche pensare che ha in Italia il meglio dello Stato suo che è di giurisdizione dell’imperio, e così come ora questi principi (alla dieta di Costanza) sono deliberati recuperare il ducato di Milano potrebbero bel occorrere che qualche volta volessero fare il medesimo Stato imperiale che tiene la Signoria che è il fior d’Italia; e se ella sapesse qualche pratica che è andata intorno da manco che mille anni in qua, non le parrebbe forse il mio ricordo essere vano. (1) … segue

(1) SAMUELE ROMANIN. Storia Documentata di Venezia Tomo V. Tipografia di Pietro Naratovich 1856.

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